La Paz è un batuffolo di lana ingarbugliato fatto di contraddizioni, opposti, inesplicabili distanze che si accarezzano l’un l’altra a creare un castello di carta in piedi per miracolo. Palazzi bianchi e barocchi abbracciano senz’affetto catapecchie sformate in pasta e mattoni rossi. I profumi e colori accesi dei mercati contadini tra le strade riflettono le vetrine senz’anima dei negozi occidentali.
Gli sguardi riarsi dalle rughe delle Cholitas appena tornate dai campi si spengono nel ticchettio ritmato delle scarpe da gala dei funzionari di governo diretti verso casa.
Sin dal primo giorno alle mie pupille si è incollata una patina d’incredulità che non si è più staccata, sformandosi fino a divenire una lente con la quale misurare ogni cosa.
Intendiamoci, ogni città porta dietro le sue diversità, le sue storie di ordinaria contraddizione, capriole d’irrequietudine che ne fanno una tavolozza viva lontana anni luce dai colori patinati delle cartoline. A La Paz però tutto questo è accentuato fino a divenire uno scontro costante di realtà opposte.
Probabilmente è la vicinanza che rende il gioco di luci e ombre un valzer sfrenato, una corrida senza interruzione dove le aspettative, le attese sono costantemente ribaltate dalla sorprendente realtà.
In questa giostra forsennata di giravolte e piroette, la mia attenzione, quella patina d’incredulità ormai fatta cera, ha trovato una storia mai raccontata che ne ha definitivamente frantumato le già deboli radici.
È una storia che ha il sapore dolceamaro del passato irrimediabilmente ingiusto; una storia che parla di confini, tradimenti, nostalgia e dell’inesauribile sostanza della velleità. Una storia che nella sua cruda realtà credo rappresenti chiaramente il volto sfigurato della stessa città che ne ha dato origine.
E forse non solo il suo. Ho scoperto questa storia salendo per la prima volta sul teleferico della città. Per inciso: sì, a La Paz ci sono interi quartieri che non hanno acqua corrente, gas, luce, però esiste una funivia colorata che ne copre l’intero perimetro.
Tra lo spettacolo dei tetti in lamiera stropicciati come coriandoli e la lama opaca delle montagne innevate sullo sfondo, sono attratto da alcune scritte in azzurro brillante lasciate lì a cadere sulle teste dei passeggeri come memoria e monito: “#MarParaBolivia”.
Nella maggior parte delle cabine, alzando lo sguardo dai seggiolini si trova questo slogan in caratteri cubitali. Un hashtag come molti, innocente nella sua semplicità, a prima vista sembrerebbe una innocua campagna pubblicitaria per valorizzare il patrimonio marittimo della regione. #MarParaBolivia. Breve, lucido, efficace; se non fosse che questi smaglianti cartelloni commerciali sono infilati tra picchi grigio scuro coperti dal velo panna dei ghiacciai e trovano ospitalità nella capitale amministrativa più alta al mondo.
Una cornice che ben poco ha da spartire con le tonalità calde delle spiagge sudamericane.
La mia curiosità latente mi porta a interrogare passanti e sconosciuti. Di grazia, cosa significano questi cartelloni nei quali si parla di mare e Bolivia? Siamo a un’altitudine di circa 4000 metri e anche più in là, oltre le montagne, non mi risulta ci siano pezzi di oceano dove sventola la bandiera wiphala, o sbaglio?
Una domanda come tante, lasciata riposare nelle pieghe di conversazioni smozzicate, impastate dalla rinomata taciturnità andina. A quelle due sillabe però, il Ma-re, la parlantina poco naturale del paseño esplode in un rigurgito nostalgico, qualcosa che anche nei mesi successivi difficilmente ho ritrovato sulle labbra degli sconosciuti in strada. “Es el nuestro derecho, lo que nos han robado”.
Comincia così la storia. Fino al 1879 la Bolivia, ancora giovane nazione, libera da poco più di un cinquantennio dal giogo coloniale spagnolo, aveva un proprio accesso al mare, circa 400 chilometri di costa comodamente adagiati tra le onde dell’oceano Pacifico.
Sfruttando una disputa politica sull’incremento dei tassi doganali nella vendita di salnitro, di cui la zona marittima circostante la città di Antofagasta è ricca, nonché la poca lucidità del popolo boliviano rapito dai festeggiamenti sfrenati per il “santo” Carnevale, l’esercito cileno sfonda il confine al nord e occupa l’intera linea della costa.
I boliviani, ormai abituati a vedere brandelli del proprio territorio scivolargli via dalle mani, tentano una timida resistenza ancora offuscati dai fiumi di singani ingurgitati durante i festeggiamenti. Impreparati, colti di sorpresa, non riescono a difendere i propri confini.
Seguono anni di scorribande e tafferugli, litigi di frontiera e scontri impari. Fino al 1904, anno in cui i due paesi giungono ad un accordo, o meglio, il governo cileno impone definitivamente la propria autorità sui territori conquistati con la forza.
Da allora i boliviani hanno coltivato con irrequieta costanza e placida perizia un imperituro astio verso i vicini cileni, nonché un malcelato sogno di ritornare ad essere padroni del “proprio” mare.
Con il presidente aymara Evo Morales queste illusioni velleitarie si sono trasformate in slogan da propaganda, manifesti, minacce, di certo più buone per incitare l’elettorato che per riscuotere risultati concreti a livello internazionale.
Il Mare per la Bolivia, per i boliviani, è divenuto una sorta di Godot la cui venuta si trova prigioniera di una data tanto imminente quanto sconosciuta. Un confine immaginario a cui aggrapparsi per puntare lo sguardo oltre la tragica essenza della realtà, ovvero un paese profondamente povero e sbrindellato, stirato in due da un progresso che stenta ad arrivare e una tradizione ancestrale divenuta peso per le nuove generazioni.
Raggrinziti dalla durezza della terra dura di montagna e dalla propaganda che racconta di una realtà fittizia lontana miglia dal vivere quotidiano, la maggioranza delle persone ha scelto di nascondere la prospettiva di un futuro migliore nelle quattro pareti bucherellate di una velleità infantile che si trascina zoppicante da più di un secolo.
O forse il Mare rappresenta solo l’ennesimo parasole utilizzato per coprire il sapore amaro di una sconfitta antica. In ogni caso, quei cartelloni azzurri su fondo bianco con su scritto #MarParaBolivia raccontano il simbolo di una città, di un paese, di un popolo avvinto nei fili contorti della contraddizione: incollati all’asprezza della terra eppure tenuti a galla da un sogno senza radici, figli della tradizione eppure illuminati in volto da ciò che non c’è, montanari eppure alla ricerca del mare.
In realtà, in questo spicchio di presente fatto di confini e nostalgia, non mi è difficile leggerci l’immagine vaporosa di un anello di storia che continua a ripetersi senza interruzioni. La storia dei forti che sconfiggono i deboli, dei grandi che non vogliono esserlo, del potere secolare dell’irrealtà come energia per sentirsi vivi.
Nella timida lotta della Bolivia per il suo mare ci siamo anche noi, dall’altra parte dell’oceano, con le nostre velleità irrisolte, con i nostri lumi fatui, con i nostri soprusi malcelati. Ancora una volta i confini sono lì solo per rifletterne altri, lontani, diversi, eppure semplicemente identici. Qui però tutto risuona più forte, chiaro, amplificato dalla vicinanza col proprio opposto.
Così è più facile sentirne il suono sordo, il richiamo antico, l’eterno ritorno. Per noi, lontani eppure irrimediabilmente vicini, rappresenta uno specchio in cui rifletterci e conoscerci. Un sogno irrisolto dall’altro lato dell’oceano può renderci più consapevoli dello spessore che ogni confine si porta dietro.
Foto di Nicolò Segato