I miei percorsi si nutrono di anima e la mia anima si abbevera come un mustang nelle false pianure, un poco scoscese, dove scorrono i ruscelli dei miei pensieri, dei miei sogni, delle mie aspettative.
Io mi muovo, ogni giorno, con lo stesso autobus e la stessa metropolitana. E ogni volta, benché il mezzo sia il medesimo, l’esperienza è sempre nuova.
Oggi viaggio negli occhi dei passanti.
Corro in circolo con lo sguardo, come un cavallo che gira alla corda. Respiro il raggio e il diametro della calma verde e scura della madre appoggiata al sedile di fronte a me. Veloce schizza, la mia attenzione impertinente, e si posa a farfalla sul ceruleo di questo uomo vestito di nero.
È un occhio che sorride, il suo, chino di dovere e nostalgia. Una nostalgia diversa è quella castana, che un vecchio tiene stretta in due fessure quasi impenetrabili. Se le tiene tutte per sé, le cose che ha visto, non le lascia scappare e le annaffia, tenendole in vita, con qualche lacrima tenera e amara.
Lei, signora, si irrigidisce davanti al mio sguardo. Ma io la osservo, comunque, mentre i suoi occhi silenziosi mi dicono molto più di quanto lei vorrebbe.
È triste.
La stanchezza colora quei due bottoni scuri che le sono cuciti in volto, come l’ultimo goccio di vino rosso sul fondo di un calice semivuoto, un tempo pieno. È un tempo pieno, intenso, quello in cui le lascio un poco dei miei, di occhi, che ancora si illuminano. Usi la mia luce, come una torcia, una stella polare che la riporti a casa, sana e salva.
Missori. Io scendo. Rubo un poco di giallo da quella bimba irriverente che mi sorride. E inizio un altro viaggio.
Oggi è mercoledì. Il tempo è sereno. Le mani dell’uomo seduto di fronte a me, quelle, lo sono un poco meno. Si strofinano, l’una sull’altra, come due gattini infreddoliti si scaldano, tenendosi strette. Ma il tempo è sereno oggi, il clima è tiepido e il freddo a quell’uomo, io penso, gli venga da dentro.
Sul finestrino il riflesso di due anziani mi sussurra qualcosa. Due mani strette, in un’unione dolce di due fedi probabilmente antiche, più vecchie dell’autobus che le trasporta, si accarezzano silenziose. E il loro riverbero sul vetro mi ripete una seconda volta: “L’amore esiste”.
Un ticchettio leggero mi distrae da quell’immagine rugiadosa, proviene da un pollice e un indice che non avranno più d’un paio di decenni. È flebile ma chiaro, il battito a tempo delle dita che tamburellano su quei jeans strappati.
Mi chiedo quale musica sgorghi dalle cuffie bianche che escono dalle loro tasche. È un ritmo veloce, che sfiora il secondo. Le labbra sorridenti di questa ragazza mi suggeriscono, muovendosi nell’imitazione di qualche parola, che il testo debba essere allegro. L’autobus si ferma.
La metropolitana è sempre un po’ differente. Il pullman attraversa le campagne, ogni giorno ripercorre nel suo abitacolo i moti storici delle migrazioni d’inurbamento dei contadini, che dai campi si spostarono verso le fabbriche. Dei pendolari di periferia che oggi si recano in ufficio.
La metro è già città, è una minestra ancora più eterogenea.
Una bimba tiene stretta la sbarra rossa che unisce il pavimento nero al soffitto bianco. Che unisce il terreno al cielo, la realtà ai sogni. Le piccole manine fanno forza, per non cadere spostate dall’enorme zaino che sormonta la schiena cui sono attaccate tramite le braccia. I piccoli palmi tengono stabile la loro bimba e non permettono agli adulti intorno a lei di trascinarla via nella fretta del mattino.
Tieniti forte bimba, impara a tenerti stretti i tuoi sogni, come fai con quel palo di ferro. Gloria con gli arti stringe due tavole bianche e una dipinta ad olio. La conosco, ma non la saluto, non la disturbo e la lascio nel suo mondo.
Adoro il modo in cui non smette mai di aggrapparsi con i suoi arti alle sue arti, ai suoi disegni, alle sue canzoni. La forza con cui lei, giovane artista, tiene il suo cuore sensibile in vita nutrendolo di colori.
Missori. Io scendo. Sfioro il polso di un ragazzo che mi sorride. Le porte si chiudono. E si portano via le sue mani, che non sfiorerò più.
Sabato. Per una volta cambio percorso. Oggi tram. È un viaggio ancora diverso. I rumori sono diversi. La metro ti parla sempre: “Missori, Università degli Studi, apertura porte a destra, doors open on the right”. Il pullman è muto, parla solo attraverso le persone: “Si scende qui per Corvetto?” “Sì”.
Il tram, sarò io, ma mi pare lunatico. A volte te lo dice che è la tua fermata e devi scendere. E altre volte, se gli pare, tace. Così le mie orecchie stanno più attente. Sono seduta in fondo, ma cerco di ascoltare tutti. Una voce dolce dice ad un’altra, ancora infantile, che le farà un regalo se farà tutti i compiti che la maestra ha lasciato per lunedì. Io la voce della mia maestra ancora me la ricordo. Urlava perché sentiva poco.
Era quasi sorda. Mi ha insegnato che non è solo un fatto fisico, che funziona così anche per l’anima. Che le persone spesso gridano perché ascoltano poco. Un uomo sussurra al telefono parole incomprensibili. Sento soltanto un “anche io” detto col sorriso, prima di chiudere la chiamata.
Così suppongo un “ti amo”, un “ti voglio bene”, provenire da una voce che ha vita solo nella mia testa. Due donne accanto a me discutono in inglese. Una si impone, stridula. L’altra ride, come si ride quando non si ha nulla da dire. Sogghigno anche io, contagiata dalla sua voce buffa, complice del curioso cappello a falde larghe che indossa. Mi chiedo quale rumore abbia la mia risata.
Non mi ascolto mai quando rido. Forse il nostro ridere è un regalo tutto per gli altri. Le risate dei miei amici le riconosco tutte, tutte diverse, e tutte bellissime, soprattutto se nate da una battuta che faccio io. Il rumore, quando è rumore di gioia, di divertimento è una cura, è musica di vita.
Davanti a me c’è un ragazzo con un cane che canticchia. È intonato, è di piacevole ascolto, mi rallegra, mi alleggerisce. Ah chiaramente è il ragazzo che canticchia, non il cane.
“Fermata Piazza Grandi”. Oggi il tram è di buon umore. Scendo. Nella mia mente canta la voce di Lucio Dalla. Ma quella è “Piazza Grande”, quella è Bologna, non è Milano, quella è un’altra storia.