L’orizzonte di Camogli e i luoghi nascosti

Riviera ligure, paesaggi, case e colori, ma Il panorama sembra voler nascondere angoli perduti. Un relitto sommerso, un monastero abbandonato e il filo sottile che unisce le loro storie.

Calma e calda accortezza si sollevano gentili dalla prospettiva che offre il balcone di questa casa di Camogli. Mentre lo spirito cerca di resistere alla banalità di offrirsi così facilmente all’orizzonte, l’occhio lo inganna e si abbandona alla semplicità di una bellezza tanto scontata come quella del mare. Così si ha la sensazione d’essere su un piano cartesiano fatto di ascisse azzurre e ordinate verdi. Si ha l’impressione d’essere un punto, su di un foglio, da cui parta una mano a disegnare un cerchio ipotetico. Una linea fatta di nulla parte dalla destra, esce dal parapetto, s’allarga passando di fronte e poi rientrando, dalla sinistra, su questo terrazzo, richiudendo il cerchio in maniera perfetta. Si è come circondati da un tondo di cui una parte, il punto più estremo rispetto a chi lo guarda, resta nascosto dalla foschia. Ci si convince che la terra non finisca lì dove c’è la punta di costa più lontana, sulla destra, ma che continui dietro l’orizzonte e la linea del mare fino all’estremo di sinistra dove la terra riprende, meno timida, a mostrarsi.

Dando le spalle alla strada e lo sguardo al mare, dietro la prima punta, verso ovest, si trova Recco, invisibile da qui, nascosta da un castellotto di pietra. Il paesaggio ligure è questo gioco continuo di vedo e non vedo, è una donna fatta di terra che alza e abbassa i lembi della gonna mostrando ora una caviglia, nascondendo ora l’altra. Si rivelano Sori e Bogliasco. L’ultima parte visibile di fronte a chi guarda, prima che il blu del cielo inghiottisca il verde, è un accenno di Genova. Superba, celarsi equivarrebbe a negarsi.

Arrivato allo spigolo estremo, lo sguardo torna indietro e si dondola nella mezzaluna di terra che l’occhio coglie tra il punto in cui sono io e là, dove sta Genova. Da qui gli agglomerati di case verso la grande città sono macchie di bianco e ocra sbiadito. Mano a mano che l’occhio torna indietro dopo essere stato gettato all’orizzonte come un boomerang, si riscoprono i colori delle case che si fanno più nitidi, aumentando il numero di quelli identificabili sulla scala cromatica. Spuntano palazzine rosa, arancioni, gialle. Inferriate verdi, più si osserva e più ne appaiono, come accade con il cielo notturno che a un primo sguardo pare privo di stelle e poi ne rivela uno stormo non appena se ne riesca a scorgere una, anche solo accennata. Le costellazioni di tapparelle rivelano che quelle delle case di Camogli sono tutte verdi. Nessun astro fa eccezione.

Poi si torna a sé stessi, al punto in cui ci si trova, e lo sguardo riparte verso sinistra. La mente fa un salto e abbraccia Punta Chiappa, una lingua di roccia che lecca il mare. Chiappa in genovese indica una pietra lunga e piatta. Da qui non si vedono case su quella punta di terra che taglia la distesa blu. Solo una, bianca. Solitaria come la prima stella della sera, Venere. Sulla cartina, quello che figura come un quadrato che sporge sul mare a interrompere l’andamento altrimenti rettilineo della costa è l’agglomerato di San Rocco, Punta Chiappa, San Fruttuoso, Portofino, Paraggi, Punta Pedale, Santa Margherita, San Michele, fino al quarto angolo di questo quadrato, Rapallo. Poi la linea continua: Zoagli, Chiavari, Sestri Levante.  I nomi si susseguono, come gli elementi di una lista della spesa uguale da anni, conosciuta, invariata. Ma ci sono molti luoghi, nascosti rispetto allo spazio noto che, sommersi tra quelli che spiccano di più, si nascondono e si rivelano a pochi, come rare coccinelle gialle. 

Il relitto sommerso della Santo Spirito

Ne esiste uno, in particolare, di questi luoghi, posti che si nascondono al rumore delle masse. Non ci si arriva respirando come sulla terra e questo forse permette che siano perdonati i molti che non lo hanno raggiunto. Si trova sotto l’acqua del mare, tra Portofino e Camogli. È un relitto, si presume che sia la “Santo Spirito e Santa Maria di Loreto”.

È il 29 ottobre 1579 e nel mare che accarezza le rive di Camogli una nave fa naufragio. È il febbraio del 2020 e due subacquei trovano i suoi resti. Se effettivamente si trattasse di questa nave la scoperta sarebbe eccezionale, si tratterebbe della prima nave del Cinquecento ritrovata in Italia. Le tempistiche non sono delle migliori, oltre a farsi trovare dopo circa mezzo millennio, la Santo Spirito, sempre che di lei si tratti, non ha scelto il momento migliore per venire “a galla”. Il lock-down interrompe subito le indagini, riprenderanno a settembre. A fare la strepitosa scoperta sono Edoardo Sbaraini e Gabriele Succi, due sommozzatori professionisti di Santa Margherita Ligure. L’equipaggio, al tempo del naufragio, si è salvato grazie alle azioni del capitano, Antonio Iveglia Ohmuchievich, e degli abitanti delle coste vicine che, dalle scogliere, hanno tempestivamente lanciato funi per salvare i naufraghi nella nave di salvataggio. Un aspetto interessante, particolarmente attuale, risiede nel fatto che in quel momento in Italia imperversava la peste. Per gli abitanti della costa essersi esposti ad aiutare i naufraghi in modo così diretto aveva significato esporsi al rischio di infezioni, poiché non potevano sapere se qualcuno tra i naviganti fosse infetto. Fortunatamente le fonti riportano che non si verificarono contagi.

Il relitto si trova ancora lì sepolto, pronto a riemergere tramite la memoria. Come può essere, stare immersi nella profondità del mare, sentendo solamente il rumore delle bolle che, uscite dal respiratore delle bombole da sub, salgono in superficie? La nave è incastrata sul fondale, ne sporgono alcune parti. L’impressione è che, da un momento all’altro, possa muoversi, ergersi dalle sue macerie e far tornare in vita, alla prima luna piena, gli scheletri dei suoi antichi abitanti. Bolle che salgono in superficie, silenzio e poi un rumore. L’albero oscilla, si alzano nuvole di sabbia, un boato. Lo strepitio continua, la visibilità è ridotta, una vela si issa nell’acqua. Un urlo nel vuoto: ciurmaaaa.

La nave era partita da un porto della Croazia meridionale e aveva fatto tappa a Genova perché necessitava di riparazioni. Era partita per raggiungere Napoli, il 28 ottobre 1579, per trasportare e consegnare cinque cannoni di bronzo di produzione dalle fonderie genovesi. Una forte mareggiata spinse l’equipaggio a decidere di doppiare la punta di Portofino per cercare riparo. La forza del mare però fece sbattere la nave contro gli scogli all’altezza dell’incrocio tra Camogli e Punta Chiappa. La consegna non fu mai portata a termine. I cannoni trasportati dalla Santo Spirito dovevano servire per la guerra contro i Saraceni, provenienti dalla penisola araba, che nel Cinquecento stavano invadendo e devastando buona parte d’Italia. I saraceni operavano muovendosi dalle basi che avevano creato in alcune città delle coste italiane, come Bari e Taranto. Il loro modus operandi era quello di fare razzia delle piccole città, di villaggi e borghi e rapirne gli abitanti per poi rivenderli come schiavi. Uno dei bersagli più facili di queste incursioni erano i monasteri, perché si trovavano tendenzialmente isolati e questo li rendeva facile preda. Fu questo il principale motivo per cui nel Cinquecento il Concilio di Trento stabilì che i monasteri fossero tutti situati vicini a più grandi centri abitati, così da renderne più facile la protezione. Questo portò all’abbandono di tutte quelle abbazie la cui posizione svantaggiosa rendeva pericolosa la vita delle comunità ospitate. È curioso come a volte luoghi apparentemente lontani incrocino le loro storie in modo silenzioso, dismesso e al tempo stesso tremendamente saldo. Poco sopra Camogli, dando le spalle al luogo in cui la Santo Spirito sconta il suo eterno riposo, nella strada che congiunge la cittadina a una sua frazione, chiamata Ruta di Camogli, si trova un antico monastero, il Monastero di Valle Christi. Uno di luoghi di culto sfortunati che vennero abbandonati forzatamente a causa della loro lontananza dai centri abitati.

Il fantasma del Monastero

Si tratta di un antico monastero di architettura gotica del 1200, abitato da monache cistercensi e chiuso definitivamente nel Cinquecento, dopo il Concilio di Trento a causa della sua posizione isolata. Si dice però che il monastero non sia rimasto del tutto disabitato. Una leggenda racconta anzi che ancora ci viva qualcuno, nelle segrete più oscure, rimasto intrappolato in una dolorosa storia. Una storia iniziata diversamente da come è finita, che racconta della nascita di un affetto impossibile tra una monaca e un pastore, dal cui amore nacque una figlia. Al tempo, giusto prima che il monastero serrasse definitivamente i battenti, le altre monache, scoperto il fatto, decisero di rinchiudere l’impura consorella in una cella con la piccola figlia appena nata. La storia racconta che ancora oggi di notte, a volte, chi sappia ascoltare possa sentire la voce della madre lamentarsi, in una richiesta d’aiuto senza fine.

Non ci stupirebbe se il padre di questo sfortunato bambino non fosse in realtà un qualunque pastore, ma proprio il capitano Antonio Iveglia, la cui fortunata sopravvivenza al naufragio non trovò conferma nella morte avvenuta pochi anni dopo in una battaglia navale per mano saracena. Ma queste sono solo nostre, sciocche fantasticherie. 

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