Sulla strada verso l’Amazzonia

È mattino, tardi, quando il brontolio del pick-up avvisa che siamo in partenza. Il sole alto dell’altipiano ci saluta senz’affetto, mentre il mescolio di mattoni rossi e cappelli colorati regala l’ultimo abbraccio della città.

“Porqué no vienen en Amazzonia con migo este fin de semana? Es magica!”

Juan ci guardava col suo sorriso trasognato, chiuso nello sguardo serafico da uomo latino riarso da anni di sole e vita nei campi. Eravamo in Bolivia da poco più di un mese e Amazzonia suonava ancora come un tappeto di foglie e animali esotici confezionati in qualche documentario patinato.

Quando il giorno seguente vedemmo il retro scoperto del pick-up pieno di materassi, fagotti in plastica e teli di lana capimmo che sarebbe stato diverso, di certo lontano da quelle cartoline che dipingono l’esotico come un cristallo limpido. Ci aspettava una traversata di nove ore tra stradine sconnesse, sentieri di montagna e dirupi scoscesi, con il cielo imprevedibile delle Ande a farci da tetto e i nostri panni da cuscino.

In cinque in un portabagagli aperto fatto di metallo duro e vento fragrante. La nostra meta sarebbe stata Alto Beni, ultima comunità dello Yungas orientale, quattro capanne di legno e paglia su cui è scritta la storia cruda dei campesinos del luogo, legati in una relazione di simbiosi e fatica ancestrale al sapore aspro delle piantagioni di banane e riso della valle.

È mattino, tardi, quando il brontolio del pick-up avvisa che siamo in partenza. Il sole alto dell’altipiano ci saluta senz’affetto, mentre il mescolio di mattoni rossi e cappelli colorati regala l’ultimo abbraccio della città.

Uscire da La Paz è come tornare a galla dopo una lunga apnea, gli occhi ci mettono un po’ ad abituarsi al verde senza case e le orecchie restano immobili domandandosi dove sia finito il frastuono festoso dei mercati di strada.

Appena superato l’ultimo ventaglio di negozietti e case crude del barrio, Villa El Carmen si srotola davanti la magia placida della cumbre, il punto più alto della carretera dello Yungas. Un luogo che sembra essere stato sradicato da un colossal hollywoodiano per essere trapiantato a due passi dalle nuvole.

La prateria sconfinata, i laghi cristallini, il profumo di nebbia e rugiada che avvolge ogni cosa, la strada grigiolina che si arrampica timidamente tra i dirupi scoscesi come se chiedesse perdono per essere lì chiusa in tanta bellezza. Stesi nel portabagagli, viviamo tutto sulla pelle prima che con occhi.

Le guance si fanno dure dal freddo e le gocce della pioggerellina calma bagnano la fronte. Il silenzio dei 4000 metri avvolge ogni cosa; muti anche noi ci lasciamo cullare dal rollio delle ruote sull’asfalto. Inizia piano l’avventura, la natura attorno si scioglie nel suo primo abbraccio di benvenuto immobile e vivo.

Scendiamo verso valle e il paesaggio cambia. Ai lati della stradina si stagliano enormi le prime vette scure. Il sole brilla tra una punta e l’altra, in un nascondino senza fretta che porta con sé una sensazione di purezza.

Il calore della discesa riscalda le guance e davanti agli occhi cominciano a saltare fuori i primi alberelli bagnati di rugiada.

Di tanto in tanto spuntano indiscreti i negozietti colorati delle cholitas yungheňe, un miscuglio di mattoni crudi e gettate di vernice colorata che nascondono una varietà infinita di prodotti. Mango, papaya, caramelle alla coca, sacchetti ripieni di spezie tropicali accanto a brocche colme di bevande calde, empanadas appena sfornate e marraquetas croccanti in cesti di vimini, sciarpe di lana che abbracciano secchielli di legno ripieni di candele e incenso.

A guardia di ogni cosa ci sono gli sguardi profondi e stanchi degli abitanti della valle. Sui loro volti si legge la storia dei monti attorno, come un marchio, come un racconto muto. Sono volti graffiati dalle rughe e resi bronzei dal sole dell’altipiano.

Portano con sé una sensazione di pace e serenità, presa in prestito dal paesaggio circostante. La natura sembra parlare attraverso i loro occhi, raccontando di un tempo antico che è rimasto immutato in quelle pupille.

Nei brevi villaggini di passaggio non ci sono lampioni o antenne. Le quattro lampadine sono alimentate da generatori elettrici nascosti nel retro delle case, l’acqua arriva con un sistema artigianale di tubi in plastica direttamente dal fiume nella valle.

Tutto è immobile, fermo in un tempo indefinito lontano qualche decennio.

Le cholitas raccolgono le proprie trecce lunghe in coriandoli di seta scura a formare un arcobaleno color terra sulla schiena, come le loro nonne. Le gonne colorate sono cucite secondo la tradizione e indossate una sopra l’altra, divenendo una fontana di lana che allarga l’orizzonte dei fianchi a dismisura proprio, ancora una volta, come le loro nonne.

Gli uomini anziani masticano coca seduti sui muretti di fianco ai negozi, con calma, assaporando i propri pensieri, persi nelle nuvole di terra sollevate dalle macchine di passaggio. Salutano ogni forestiero con un gesto della mano, allargando lo sguardo. Le parole non servono, tutto è scritto in quelle palme e pupille impastate del sudore della terra dei campi attorno.

Vicino Coroico la strada si fa un groviglio di curve e dislivelli. L’asfalto si perde in sentieri polverosi e quadrati di fango. Qua e là la terra franata nella stagione delle piogge rende il percorso un battuto da rally e Juan deve tirare fuori tutta la propria abilità da guidatore navigato per non restare impantanati.

Nel retro cominciamo a sentire il freddo pungente del tramonto. Ci riscaldano gli ultimi raggi porpora che dalla cima colorano il tratto finale della valle. I dirupi scoscesi ai lati della strada ora sono coperti in ogni punto dalle foglie enormi delle palme e degli alberi di banano.

Il verde umido e scintillante gioca ad acchiapparello con il color fuoco del cielo, riempendo le pupille di uno spettacolo unico. Di tanto in tanto fili di acqua limpida cadono a cascata sulla strada, rompendo il fruscio della foresta con il suono grigio e costante dei fiotti.

Per chilometri non si vedono più villaggi ed abitanti vicino la strada; lontano, nel mezzo della foresta compaiono i primi puntini amaranto coperti da fumo di chi vive nel mezzo del nulla e si sta preparando per la cena.

Juan Josè, un paseňo gioviale nascosto con noi nelle coperte del retro, ci racconta la storia di un aviatore giapponese che poco dopo la seconda guerra mondiale, coperto di vergogna per non aver potuto portare a termine il proprio sacrificio di kamikaze, si era rifugiato in solitaria tra quei monti e da allora era diventato un guru esotico della zona, meta di decine di turisti e locali attratti dal misticismo selvaggio del suo eremitaggio d’espiazione.

Osserviamo la sera farsi scura, il tetto della notte si riempie di mille stelle brillanti, la luna fa capolino tra le nuvole spargendo un manto di luce pallida. Il profumo denso della foresta bagnata riempie le narici. I fuochi accesi ora puntellano la valle in una danza di fumo, come se volessero riflettere il mappamondo delle stelle.

Vediamo nel buio gli occhi orientali dell’aviatore giapponese fissare le fiamme e ripensare al proprio viaggio. Con questo pensiero, cullati dal tramestio del pick-up, ci addormentiamo in un sonno leggero e fresco, inebriati dal vento dolce sulla fronte.

Manca poco ad Alto Beni, lo sentiamo nell’aria dolce delle piantagioni. Il profumo umido della strada sterrata ci accompagna silenzioso fin dentro il cuore dell’Amazzonia.

Foto: Nicolò Segato