Nord e Sud si incontrano a Trento, terra di confine circondata da montagne e attraversata dall’Adige. Crocevia tra il mondo latino e quello germanico. Da qui passava la via Claudia Augusta (tracciata nel 15 a.C. da Druso e ultimata 60 anni dopo dall’imperatore Claudio, dal quale prese il nome), che con i suoi 520 chilometri collegava direttamente la pianura del Po con quella del Danubio.
Città-ponte tra i territori controllati dal papato e quelli dominati dall’impero, dal 1200 al 1800 Trento fu governata da un principe-vescovo, vassallo dell’imperatore ed emissario del papa.
Per questo e per la sua strategica posizione geografica fu scelta da papa Paolo III, che definì la città “sito comodo, libero e a tutte le Nazioni opportuno”, come sede del Concilio che avrebbe definito la posizione della Chiesa verso i dissidenti Calvino e Lutero.
Sotto il pontificato di tre papi, il Concilio durò 18 anni, dal 1545 al 1563, e fu l’avvenimento storico che più ha segnato l’identità civica di Trento. L’evento fu l’occasione per un rinnovamento urbano senza precedenti e dette alla città quell’impronta rinascimentale che ancora oggi la caratterizza.
In quegli anni Trento contava meno di diecimila abitanti e fu chiamata a ospitare 284 prelati e numerosi altri delegati provenienti da diverse nazioni, assumendo di fatto il ruolo di capitale del cattolicesimo e di crocevia della politica europea. Cardinali, vescovi, generali di ordini, teologi e ambasciatori, spesso accompagnati da folto seguito, furono ospitati nei principali palazzi, nei conventi e nelle locande, mentre le sessioni conciliari si tennero nella Chiesa di Santa Maria Maggiore e nella Cattedrale di San Vigilio.
Il dibattito fu ampio e approfondito (come direbbe oggi un cronista politico) e venne più volte interrotto da contrasti tra il papa e l’imperatore o per organizzare interventi contro alcuni bellicosi principi protestanti.
Alla fine non riuscì a ricomporre lo scisma protestante e a ripristinare l’unità della Chiesa, ma introdusse una serie di regole che negli anni successivi avrebbero cambiato non solo l’apparato della chiesa e i concetti estetici (indirizzando la produzione artistica verso il barocco e togliendo dalle rappresentazioni religiose le nudità e le immagini giudicate troppo gioiose) ma anche lo stile di vita e le abitudini della popolazione, non solo quella credente.
Furono istituiti i seminari per formare sacerdoti (che da allora non possono sposarsi) in grado di avvicinare meglio la gente alla dottrina cattolica e contemporaneamente si concentrava il potere sulla figura del papa, unico interprete della Bibbia.
Si decise che le messe potevano essere recitate solo in latino e con un rigido rituale che cambierà solo nel 1969 a seguito del Concilio Vaticano II. Venne redatto un indice dei libri proibiti (tra questi alcune opere di Dante e di Boccaccio e tutte quelle del Macchiavelli), elenco che nel corso dei secoli fu aggiornato altre venti volte fino alla sua abolizione nel 1966, e istituito un nuovo tribunale dell’Inquisizione (che qualche anno dopo condannerà Galileo, Giordano Bruno e Tommaso Campanella).
Nell’ultima sessione vennero anche rivisti i giorni dell’anno da considerare festivi, quelli in cui osservare il digiuno, quelli in cui astenersi dalle carni e l’elenco dei cibi vietati nei giorni di magro, che in pratica divennero più di 150 all’anno. Tra gli alimenti ammessi c’era il pesce, che per le popolazioni non costiere era però costoso e facilmente deperibile.
Una soluzione al problema la suggerì uno dei padri conciliari, Olaf Manson, arcivescovo di Uppsala ma da tempo residente a Roma tanto da trasformare il suo nome in Olao Magno, interessato allo spirito della riforma ma anche alle fortune commerciali dei suoi conterranei svedesi. Nel 1555 scrisse un libro (che lui stesso pubblicò e diffuse tra i colleghi del Concilio) sulla storia e gli usi delle popolazioni scandinave, in cui tesseva le lodi di un pesce detto merlusia, che abbondava nei mari del Nord ed era perfetto per essere essiccato o messo sotto sale, per la sua convenienza economica e per le disposizioni del mangiare magro.
Grazie a questa promozione, il merluzzo conservato, già conosciuto da un centinaio di anni per merito di un commerciante veneziano (Pietro Querini) che lo importava dalla Norvegia con scarso successo, avrebbe messo in moto un fiorentissimo commercio e si sarebbe diffuso tra le popolazioni italiche cambiandone le abitudini alimentari e culinarie.
Da allora il baccalà (merluzzo sotto sale) e lo stoccafisso (merluzzo essiccato, traduzione di stock-fish, pesce bastone per la sua rigidità o pesce da magazzino, per la sua facilità ad essere stoccato) sono presenti sulle nostre tavole, non solo nei giorni di precetto, in infinite varianti declinate ai gusti del territorio (alla genovese, alla messinese, alla vicentina, alla calabrese, per citarne alcuni).
Anche a Trento, soprattutto in inverno, è facile trovare nei menù di trattorie (tra queste l’Osteria a Le due spade, vicino al Duomo, aperta già all’epoca del Concilio) antiche ricette di merluzzo: baccalà all’orientale, con uvetta e pinoli, come avevano imparato i crociati a condire le pietanze, oppure stoccafisso cotto al vapore, servito con polenta fatta con farina di Storo (un paese in provincia sulle sponde del lago d’Idro). Bianco, senza pomodoro, che non era ancora arrivato dalle nuove terre da poco scoperte.
I tre denti all’origine del nome
Per capire meglio l’origine del nome Trento dobbiamo salire alla frazione Sardagna, piccolo paese a una decina di chilometri dal centro città, a 600 metri di altezza sopra la riva destra dell’Adige, sulla strada per il Monte Bondone.
Ci si arriva in pochi minuti d’auto oppure in funivia (la stazione a valle è sul Lungo Adige Montegrappa, un centinaio di metri dalla stazione ferroviaria). Il borgo è a pochi minuti dalla stazione della funivia e non offre attrazioni turistiche (curiosità e contrasti: Sardagna è il luogo d’origine della famiglia di Alcide De Gasperi, statista e fondatore della Democrazia Cristiana, e qui nacque Margherita Cagol, fondatrice con Curcio e Franceschini delle Brigate Rosse).
Interessante invece la vista panoramica sulla città dalla terrazza della stazione di arrivo della funivia. Davanti a noi sono riconoscibili le tre cime, i tre denti (Monte Verruca o Doss Trent, Dosso Sant’Agata e Dosso di San Rocco), che sovrastano la valle dell’Adige e suggerirono ai romani il nome Tridentum (tridentino è ancora oggi utilizzato come appellativo riferito alla storia della città).
Vista dall’alto la città ci appare divisa dal suo fiume, che scorre quasi parallelo all’autostrada e alla ferrovia: a destra la parte commerciale, industriale e logistica, a sinistra la parte storica e il suo duomo dedicato a San Vigilio, in una delle più belle piazze italiane, con le sue case affrescate, la Fontana del Nettuno e la Torre civica.
Poco distante dal duomo si distingue anche il castello del Buonconsiglio, residenza del principe-vescovo fino al 1803, quando Napoleone lo trasforma in una caserma. Nel 1924 fu restaurato e divenne Museo Nazionale.
Oggi è il polo principale di un sistema museale gestito dalla Provincia autonoma di Trento, che associa altri quattro castelli: il Castello di Stenico, nelle Valli Giudicarie, Castel Beseno, nella Valle dell’Adige, fra Trento e Rovereto, Castel Thun, in Valle di Non e Castel Caldes in Val di Sole.
Nel 1916 il castello era sede del Tribunale militare austro-ungarico e fu il teatro del processo, della condanna e dell’esecuzione di Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa, importanti figure dell’irredentismo italiano ed eroi nazionali.
Quando si dice “Mettere in piazza”
Chiamarli tutti irredentisti sarebbe eccessivo ma sicuramente gran parte dei trentini alla fine dell’Ottocento si sentiva un baluardo di italianità poco oltre il confine del Regno.
Quando Bolzano nel 1889 decise di erigere in una delle sue piazze principali un monumento al poeta trovatore del 1200, Walther von der Vogelweide, considerato uno dei primi poeti in lingua tedesca, il Comune di Trento pensò di contrapporre ai vicini confinanti un’analoga iniziativa, costruendo nella piazza dove era stata da poco aperta la stazione ferroviaria una statua imponente di uno dei padri della letteratura italiana, Dante Alighieri.
Alta 17,60 metri, in bronzo su una base di granito, l’opera dello scultore Cesare Zocchi venne inaugurata l’11 ottobre 1896 e divenne un simbolo di italianità e di identificazione nazionale della città allora inserita nell’Impero austroungarico. Per questo tutti gli anni fino alla prima guerra mondiale l’11 ottobre i cittadini si radunavano sotto il monumento per ricordarne la sua inaugurazione e il suo significato, che Giosuè Carducci riaffermò in una poesia dedicata proprio al monumento trentino.
Compresa tra il moderno palazzo della Regione, la stazione ferroviaria e il palazzo della Provincia, oggi piazza Dante ha al centro un grande giardino pubblico con alcune fontane, un laghetto, l’imponente monumento dedicato all’Alighieri e vari busti e targhe per ricordare concittadini illustri.
Uno di questi busti è in memoria di Giovanni Canestrini e la sua collocazione (1902) nella piazza da parte della Società degli studenti trentini provocò molte polemiche. Canestrini, naturalista e biologo nato a Revò, in provincia di Trento nel 1835 e morto a Padova nel 1900, fu il primo divulgatore e sostenitore della teoria del darwinismo. Lo scontro tra i partiti laici e il movimento cattolico cittadino, che chiedeva la rimozione della statua, durò per molti anni. La sua immagine fu sfregiata, restaurata e poi ricollocata.
Una riappacificazione sul tema arriverà solo a distanza di 112 anni dalla collocazione del busto, per opera di Papa Francesco, che pur non entrando nel merito della teoria di Darwin, ha affermato che la teoria del Big Bang e quindi l’evoluzione, non contraddice la Bibbia.