Nel 1993 Tiziano Terzani decide di dar retta al consiglio di un indovino e di non prendere aerei. La lentezza degli spostamenti gli farà scoprire paesaggi e umanità da una nuova prospettiva.
“Quando il mio orologio segnò, indifferente, la mezzanotte, la decisione di non volare era diventata ovvia. Quel lento, antico scendere in barca lungo il Mekong aveva già dato un nuovo ritmo alle mie giornate. Eppure mi parve di fare una cosa ardita, quasi proibita. Dopo una vita sensata, all’insegna della ragione, mi permettevo ora una decisione fondata sulla più irrazionale delle considerazioni e mi imponevo così un limite senza senso. La mattina del 1° gennaio 1993, per aggiungere simbolismo alla mia decisione, volli fare i primi passi a bordo di un elefante. […] La cesta dell’elefante era scomoda e malferma, ma la sua altezza era perfetta per farmi godere del mondo da una diversa prospettiva.
Sembra già tutto scritto in queste poche righe; quelle che concludono uno dei primi capitoli di Un indovino mi disse (Longanesi, 1995), il libro che Tiziano Terzani (1938-2004) scrive sul suo 1993, anno in cui il giornalista fiorentino, a quel tempo inviato in Asia per il periodico tedesco Der Spiegel, decide di fidarsi di una previsione che un indovino di Hong Kong gli aveva fatto molti anni prima, nella primavera del 1976.
“Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare, non volare mai.”
Previsione relegata subito a qualche angolo remoto della mente, che però non era mai stata del tutto rimossa e che, con l’approssimarsi dell’anno predetto, si era fatta via via sempre più insistente. Impossibile fare finta di niente, per quanto la ragione ci porti a concludere che le basi su cui si fonda sono decisamente fragili.
Il tarlo nella testa non se ne va, non può andarsene ed è per questo che la notte di Capodanno di quell’anno, quando l’autore si trova in Laos, la scelta diventa realtà.
Niente aerei. Fino alla fine del 1993. Una decisione impegnativa, soprattutto considerando che un inviato speciale deve muoversi in continuazione e deve riuscire a farlo in breve tempo. Assistere, documentare, raccontare. Verbi che presuppongono una ben precisa concezione del tempo. Non esiste un cronista inviato che si faccia sfuggire una notizia perché non è riuscito ad arrivare in tempo sul posto.
Eppure Terzani riesce ugualmente a liberarsi di questi dogmi per immergersi in un’esperienza fuori dal comune: un’esperienza all’insegna della lentezza, della scoperta, della curiosità e della riflessione. Un’esperienza da cui nascerà quello che non può essere riduttivamente catalogato tra i reportage di viaggio, perché Un indovino mi disse è, se pensiamo alla portata dei contenuti e dell’analisi che l’autore fa di sé stesso personaggio, un romanzo di formazione.
Un diverso rapporto con il tempo
È un libro che non può essere raccontato, dev’essere letto affinché se ne possa cogliere ogni sfumatura, dal più breve dialogo con un compagno di viaggio incontrato in treno fino alle argute provocazioni sulle ormai consolidate abitudini occidentali che Terzani, col suo gusto gioviale tutto toscano, si diverte a porre ai lettori, passando attraverso le imponenti domande esistenziali a cui ancora oggi non siamo in grado di dare risposta. Dopotutto però, l’importante è riuscire a farsi la domanda.
Alla risposta penserà qualcun altro. Forse. Per esempio un indovino.
Già, perché uno degli elementi che dimostrano il radicale cambio nella concezione e nell’utilizzo del proprio tempo che l’autore mette in atto, è proprio la quantità indicibile di indovini che sceglie di consultare durante quell’anno. Uno, almeno, per ogni luogo visitato. Possibilmente il migliore della zona. Uomini, donne, giovani, anziani. Terzani ne consulta decine e li ascolta tutti attentamente: da un lato screditandone il valore ogni volta che l’indovino sbaglia, dall’altro lato non riuscendo mai ad eliminare un’atavica attrazione nei confronti di chi legge, nelle mani, nelle pietre, nelle carte, il tuo passato e il tuo futuro.
“Dopotutto, uno è sempre curioso di conoscere il proprio destino.”
Chi di noi sarebbe disposto ad andare da un indovino – diciamo – una volta alla settimana? Certo, qualche occidentale che lo fa c’è di sicuro, ma c’è una fetta consistente di popolazione che la considera una scelta inutile. Una perdita di tempo. Una cavolata bella e buona pensata per i creduloni.
Eppure Terzani, che pure si avvicina a loro con questo spirito, occidentale, votato al raziocinio più sfrenato, decide di perseverare e di lasciarsi trasportare, incontro dopo incontro, ora dopo ora, in un universo opposto. Più povero di calcoli, ma forse più ricco di spirito.
In barca sul Mekong
È un universo, quello che Terzani scopre nel percorso, via terra, che dal Laos lo riporterà in Italia, in cui si può riscoprire un contatto primordiale con la natura e con l’umanità. Ed è grazie alla scelta dei mezzi di trasporto che questo è possibile.
“Le navi si avvicinano ai paesi entrando con lento pudore nelle bocche dei loro fiumi; i porti lontani tornano ad essere delle agognate destinazioni, ognuna con la sua faccia, ognuna con il suo odore.”
Sceglie la nave per attraversare il Mekong, il fiume che segna il confine tra Laos e Thailandia. Confine non solo geografico, perché durante il viaggio l’autore si accorge, con rammarico, che da un lato la Thailandia si è lanciata nella forsennata corsa alla modernità che sta fagocitando tutto l’Occidente, costruendo ponti e autostrade e distruggendo la tradizione locale; dall’altro lato invece il Laos resiste: uno stato più piccolo e decisamente meno popolato che non si è ancora fatto travolgere e che non vuole costruire i ponti sul Mekong che lo collegherebbero alla Thailandia e quindi alla modernità.
“Il Mekong era piatto e senza drammi. […] Si scivolava via lenti fra le due sponde che erano l’essenza di quella contraddizione che dentro di me avrei tanto voluto risolvere: a sinistra la sponda laotiana con i villaggi di capanne all’ombra delle palme di cocco, le barche a remi ormeggiate al fondo di semplici scale di bambù e, la sera, i bagliori teneri delle lucine a olio nel silenzio; a destra, la sponda thailandese: luci al neon, la musica degli altoparlanti e il rombare lontano dei motori. […] Su quale sponda la felicità?
In treno sulla Transiberiana
L’ultima parte del viaggio di ritorno avviene sulla Transiberiana, forse uno dei simboli del viaggio nella sua accezione più romantica. Terzani sale in Cina e percorre prima tutto il tratto mongolo passando per la capitale Ulan Bataar, e poi entra in Russia, diretto verso ovest. Ha modo di assaporare i lento cambiamento sia fuori dal finestrino, nel paesaggio, sia dentro, nei volti dei passeggeri.
È un treno su cui arriva chiunque: dal businessman che fa affari tra Russia e Cina, fino ai cittadini dei piccoli paesi sulla linea ferroviaria che assaltano il treno alla fermata per vendere e comprare cibo e vestiti usati.
È un viaggio che ti costringe all’interazione umana: innanzitutto perché sul vagone, chiamato De Luxe, è già un risultato trovare posto a sedere e, in generale, si sta molto stretti. Poi, perché le lunghe ore, interminabili, tra una fermata e l’altra, costringono ad aprire una conversazione con chi ti sta accanto.
Per passare il tempo, si direbbe.
Ma è qui che Terzani si accorge che non si tratta di ingannare l’attesa, bensì di viverne appieno ogni singolo istante. È un tempo che noi, sempre in corsa da uno stimolo all’altro, abbiamo dimenticato e che, forse, dovremmo provare a riscoprire.
Così come il tempo per la meditazione, che l’autore scopre proprio durante questo lungo viaggio e a cui dedica gli ultimi capitoli del libro. Un’attività che ci può avvolgere completamente, regalandoci emozioni insperate, ma che prima, ci richiede un cambio radicale del nostro rapporto con il tempo.
E alla fine, che cosa si lascia alle spalle l’autore, una volta giunto in Italia?
“Quel che non riuscii a togliermi di dosso era il ricordo inquietante di quella enorme massa di umanità disperata, disorientata, avida e adirata che, dal Vietnam alla Cina, dalla Mongolia alla Russia, mi ero lasciata dietro. Avessi viaggiato in aereo, non l’avrei mai vista.”
Una curiosità dedicata a chi ancora ha una leggera diffidenza sorda nei confronti degli indovini e delle loro previsioni. Il 20 marzo del 1993 un elicottero delle Nazioni Unite in Cambogia si è abbattuto. A bordo quindici giornalisti e fra di loro uno tedesco, che aveva preso il posto di Tiziano Terzani.