Santa Barbara a Metanopoli

“Metanopoli è molto più di un quartiere. Per noi è l’espressione di una speranza”. Enrico Mattei, 1956.

Negli anni in cui si stavano costruendo il grattacielo Pirelli (1954-60) e la Torre Velasca (1950-57), il primo un esempio di modernità: cemento, vetro e acciaio, 31 piani, 127 metri, fino al 1995 sarà il palazzo più alto in Italia; il secondo di antitesi della modernità, con rifacimenti al gotico e alle torri medioevali come quella in piazza della Signoria a Firenze, gli architetti urbanisti assumevano posizioni contrastanti anche su come regolare dal punto di vista stilistico lo sviluppo delle nuove periferie urbane nate attorno a Milano con la ripresa dell’economia nei primi anni del secondo dopoguerra.

Erano, nella maggior parte dei casi, agglomerati urbani cresciuti senza alcuna pianificazione, prodotto della fretta, delle necessità economiche e della scarsa coesione delle nuove comunità che si erano create con il flusso migratorio dalle aree povere del Paese alla città industriale: l’umano errare degli italiani alla ricerca di un lavoro e di un futuro migliore.

Nel confuso e diversificato panorama del nuovo hinterland milanese, un caso a parte fu la nascita del villaggio di Metanopoli, nel comune di San Donato Milanese, a Sud Est del capoluogo. E significativa la sua chiesa, dedicata a Santa Barbara, realizzata secondo stili moderni, all’avanguardia per l’epoca e simbolicamente ricca di richiami alla storia e al passato in un luogo che di storia non ne aveva ancora.

chiesa-santa-barbara-11-le-decorazioni-al-soffitto-dei-cascella-e-il-mosaico-di-tomea

La chiesa moderna dai simboli antichi

In un articolo per L’Espresso del 1957 Bruno Zevi la giudicò come una delle più brutte costruzioni dell’architettura del dopoguerra e la nuova comunità di Metanopoli faceva fatica ad affezionarsi ad alcune opere d’arte che la chiesa racchiude. Troppo astratte, simboliche e lontane dai canoni estetici e dalle rappresentazioni figurative a cui erano abituati nei loro luoghi di provenienza.

Ma nonostante questi giudizi, forse esagerati, e le perplessità il nuovo complesso parrocchiale rappresentò un modello di modernismo religioso e svolse pienamente la sua funzione sociale di rappresentare la centralità urbana capace di costruire un’identità collettiva.

Soprattutto riusciva a soddisfare le volontà dei tre attori principali dell’opera: il committente, l’ingegner Mattei, che era attento anche al benessere spirituale dei suoi dipendenti e voleva rafforzarne lo spirito di appartenenza all’azienda Eni; l’Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, che voleva rinnovare ed ampliare la sua Diocesi e apprezzava l’arte contemporanea; il progettista, Mario Bacciocchi, che stilizzando in forma moderna le antiche rappresentazioni del sacro cercava di riprodurre elementi tipici della tradizione (la facciata colorata delle chiese toscane, le guglie del Duomo di Milano) per ricreare un legame a un passato che per Metanopoli non esisteva.

La chiesa ha una facciata a capanna; presenta un porticato con pilastri in cemento armato ed è abbellita alla sua sommità da guglie gotiche. Tutte le pareti esterne sono rivestite da pannelli in cemento su sfondi colorati, che creano un delicato gioco cromatico riprendendo l’esempio di Santa Maria del Fiore e di Santa Croce a Firenze.

È affiancata da un battistero a pianta ottagonale (all’interno il dipinto Battesimo di Gesù di Ernesto Bergagna della Scuola Beato Angelico) e da un campanile snello, alto 45 metri, entrambi rivestiti in pietra naturale.

La statua di Santa Barbara

Sulla piazza, a pochi metri dal campanile è collocata la statua di Santa Barbara, opera di Aldo Caron. È un blocco di porfido rosa monolitico alto tre metri e la figura umana è astratta, abbozzata con tratti dinamici che ricordano opere cubiste.

La storia di Santa Barbara, vergine e martire, tradizionalmente protettrice degli artificieri e minatori e, forse su richiesta dello stesso Mattei, anche patrona dei petrolieri e metanieri, è raccontata sul portone d’ingresso centrale, incisa su bronzo dagli scultori Arnaldo e Giò Pomodoro.

L’interno è composto da una grande navata centrale e altre due laterali che si presentano come piccole cappelle in successione e collegate tra loro. La loro copertura è una balconata che continua anche sul lato della facciata d’ingresso. L’ampio presbiterio è dominato dall’immensa Crocifissione, capolavoro di un pittore originario del Cadore, Fiorenzo Tomea.

Il mosaico raffigurante il Calvario, che occupa la parete di fondo della navata centrale (800 metri quadri), è stato realizzato con moduli eseguiti a terra e poi assemblati sulla superficie verticale. La luce, che qui cala dall’alto dal soffitto a vetrate e non da finestre laterali, illumina il grande mosaico e ravviva l’azzurro del cielo che fa da sfondo alle tre croci.

Poi si diffonde sfumando nella parte della chiesa dedicata ai fedeli, che trovano così quasi un’ombra dove rilassarsi nella preghiera e nel raccoglimento: l’ascetica penombra delle chiese romaniche.

Dirimpetto a quest’opera, sulla controfacciata, una vetrata con il tema della Resurrezione del Signore completa la rappresentazione del mistero pasquale. La decorazione del soffitto a tarsie lignee (tecnica di dipinti su legno utilizzata nel Medioevo) è opera di Andrea e Pietro Cascella ed è costituita da una cinquantina di pannelli di diverse forme e dimensioni con immagini paleocristiane stilizzate in modo da sembrare un linguaggio astratto e moderno.

L’altare ha la forma di una grande incudine (forse un richiamo al mondo del lavoro); è rivestito di un mosaico veneziano d’oro e racchiude in un’arca in marmo giallo la reliquia di Santa Barbara. Gli arredi, un tabernacolo in legno antico con piccoli pannelli in rame scolpiti e due massicci candelabri, sono opere giovanili di Arnaldo e Giò Pomodoro.

La Via Crucis collocata nelle pareti laterali è composta di quattordici bronzi scolpiti in bassorilievo e incastonati nella parete da Pericle Fazzini, scultore di fama internazionale (sue opere sono esposte nei musei di New York, Tokio, Londra e Parigi). Nelle tre cappelle di destra, in ordine di successione, troviamo: un San Giuseppe in bassorilievo ligneo di Sante Rossi, tre statue in bronzo dello scultore siciliano Augusto Perez (un Cristo con le braccia abbassate sullo sfondo di una croce, affiancato da San Francesco e Santa Caterina) e il dipinto della Madonna con bambino fra gli angeli, di Bruno Cassinari, noto pittore espressionista piacentino.

Nelle cappelle di sinistra, si possono ammirare un Sant’Antonio che predica alle rane, in pannelli dipinti da Franco Gentilini, pittore faentino, e una tela con Santa Barbara dipinta dal ligure don Francesco Boccardo, sacerdote e pittore.

chiesa-santa-barbara-20-tribuna-leggio-smalto-di-carmelo-cappello

La tribuna-leggio, a fianco dell’altare, ha uno smalto su rame di Carmelo Cappello raffigurante i quattro Evangelisti. Sul lato opposto una scultura in legno rappresentante la Madonna con Bambino di don Marco Melzi, altro artista in tonaca, autore anche di due statue in marmo di Candoglia collocate in cima al Duomo di Milano.

metanopoli-il-quinto-palazzo-eni-e-i-cancelli-dingresso

La città del Metano

Nel 1952 Enrico Mattei stava riunendo sotto un’unica azienda controllata dallo Stato (l’Ente nazionale idrocarburi, Eni), alcune società che operavano nel settore dell’estrazione e della trasformazione del petrolio e di gas naturale (Agip, Snam, Anic e altre minori) e aveva da poco intrapreso la realizzazione di un nuovo insediamento urbano alle porte di Milano.

Un luogo dove istallare il quartier generale della nascente Eni e far risiedere i suoi dipendenti, che lavoravano in cantieri sparsi in tutto il territorio italiano. Nell’area scelta non esisteva alcun impianto produttivo (era terreno agricolo con marcite e un paio di cascine) ma era vicina alle grandi reti di trasporto dell’epoca: l’aeroporto di Linate, la storica Via Emilia, che collegava il centro di Milano con le città emiliane e il Sud, e qui era previsto l’inizio dell’Autostrada del Sole, che verrà inaugurata nel primo tratto da San Donato a Parma nel 1958.

Per questi vantaggi logistici la località fu scelta come sede del primo impianto di rifornimento di gas metano compresso e per questo le fu assegnato il nome di Metanopoli, città del metano. Anche la sua futura toponomastica si sarebbe ispirata al metano: gran parte delle vie furono dedicate alle località dove erano stati trovati giacimenti di gas naturale (Caviaga, Spilamberto, Alfonsine, Soresina …).

Fu acquistata una superficie di circa 80mila metri quadri (in fasi successive verranno acquistate altre aree, sempre nel comune, per un totale di tre milioni di metri quadrati) e il progetto urbanistico fu affidato all’architetto emiliano Mario Bacciocchi. Nel 1956, a soli tre anni dall’inizio dei lavori, il villaggio era quasi completato, con più di 160 edifici e una rete stradale interna di circa 25 km. Accanto alla carreggiata delle strade fu realizzata una fascia erbosa e un marciapiede, al di sotto del quale veniva collocato un cunicolo per gli impianti tecnologici e la distribuzione dei servizi (acqua, gas, elettricità), semplificandone la manutenzione.

La filosofia delineata dal committente Mattei era quella del villaggio aziendale. Un’evoluzione dal villaggio operaio-industriale come Crespi d’Adda alle new town del terziario che stavano nascendo negli Stati Uniti e ai nuovi quartieri “autonomi” di alcune città olandesi, inglesi e tedesche.

Si mirava a integrare in un’unica realtà uffici, laboratori, centri di formazione e quartieri residenziali con un centro sportivo, una scuola, un poliambulatorio, una chiesa parrocchiale, negozi (tra questi aprirà l’Eica, Ente italiano cooperativo approvvigionamenti, che sarà una delle prime forme di supermercato in Italia), e un motel (nuova tipologia di albergo, importata dagli Stati Uniti) dedicato ai camionisti che raggiungevano Metanopoli per fare rifornimento del gas metano. Era dotato di bar, ristorante, una piccola piscina e un campo di bocce.

L’intero villaggio era concepito secondo criteri di sostenibilità ambientale ed efficienza. Con case basse circondate da giardini e viali alberati, il villaggio rimane ancora oggi un modello ideale nel disomogeneo panorama della periferia milanese. Qui, ogni abitante aveva a disposizione (e ha ancora oggi) 170 metri quadrati di verde contro i trenta dell’abitato di San Donato e i sette della metropoli meneghina.

Nei primi anni Metanopoli era chiusa al mondo esterno da recinti e grandi cancelli (esistono ancora, anche se non furono mai utilizzati), perché l’accesso al centro abitato doveva essere concesso solo ai propri impiegati e alle loro famiglie. Più che un segnale di chiusura era la demarcazione di una proprietà privata. Autonoma era anche la distribuzione di energia termica: il riscaldamento delle case e degli uffici era centralizzato in un’unica fonte per tutto il villaggio e passava nei cunicoli lungo le strade (precedendo di decenni le attuali reti di teleriscaldamento).

Il centro sportivo, ora affidato al Comune dopo anni di quasi abbandono, era ed è ancora un’oasi di verde e tranquillità. Fino a metà degli anni ’70 ospitava in spazi recintati cervi, daini, persino procioni; attorno ai piccoli laghetti stazionavano anatre, cigni e pavoni. Negli impianti sportivi crescevano e si allenavano campioni di nuoto come Novella Calligaris e Paolo Barelli, o di atletica come Fiona May, salto in lungo, Gennaro Di Napoli, mezzofondo, e Paola Paternoster, più volte campionessa italiana nel lancio del disco, del peso, del giavellotto e del salto in alto. Qui veniva a giocare e insegnava tennis Mike Bongiorno. Nel 1982 la nazionale italiana di calcio ci disputò l’ultimo allenamento prima di partire per la Spagna, dove vinse il campionato mondiale.

Il “villaggio ideale”, come lo chiamava Mattei, ebbe un solo ispiratore ma molti protagonisti.

A completare il lavoro di Bacciocchi (che progetterà anche l’intero complesso parrocchiale di Santa Barbara, la piazza centrale del villaggio, i laboratori ad alveare e il centro sportivo, con un campo di calcio, la tribuna e un campo da tennis coperto), vengono chiamati altri professionisti con la stessa sensibilità nel coniugare paesaggio, architettura e città.

Alcune opere sono affidate agli architetti Marco Bacigalupo e Ugo Ratti, come la realizzazione di singole unità abitative, gruppi di case simili come quartieri nel quartiere, e la piscina coperta (quella scoperta, sempre all’interno del centro sportivo è opera di Pino Zoppini e Luigi Mattioni, a cui si deve il primo grattacielo milanese, in piazza della Repubblica, 1954).

La ricerca scientifica che chimici, fisici, ingegneri e biologi svilupparono nei laboratori del Bacciocchi, ebbe un richiamo mondiale e divenne un modello di interdisciplinarità ancora oggi seguito dalle più importanti aziende del settore. Un’eccellenza divenne (e lo è tuttora) anche la Scuola superiore di studi sugli idrocarburi, istituita nel 1955 a Metanopoli per la formazione dei quadri e dei dirigenti italiani e stranieri (dall’Africa e dal Medio ed Estremo Oriente), nella quale insegnano ancora oggi i migliori docenti internazionali nel campo dell’economia, del management e della ricerca energetica.

A metà degli anni ’50, in un villaggio alle porte di Milano non solo si stavano integrando famiglie provenienti da tutte le regioni italiane, ma potevi incontrare gente di colore e ascoltare lingue orientali.

Clima armonioso. Tanta curiosità ma nessun rifiuto. Altri tempi.

Nel 1955, viene realizzato il Primo palazzo uffici, progettato da Marcello Nizzoli (quello che per Olivetti aveva disegnato la mitica Lettera 22) e Gianmario Oliveri, quasi un castello in vetro, con una torre di 14 piani a forma esagonale (un richiamo alla struttura molecolare degli idrocarburi). Sulla sommità dell’edificio Piero Porcinai (il paesaggista che aveva curato anche la disposizione degli spazi verdi e degli alberi nel villaggio) progetta un giardino pensile sul quale si affacciava l’appartamento di Mattei; una foresteria che Mattei aveva affidato alle gestione della sorella Maria “perché l’ospite trovasse un’accoglienza familiare”.

Il Secondo Palazzo Uffici, caratterizzato da una pianta stellare a tre bracci sarà realizzato nel 1962 da Bacigalupo e Ratti. Gli interni, per la prima volta in Italia, erano tutti open-space. I due palazzi sono affiancati e sembrano riproporre il dualismo tra la torre Velasca e il grattacielo Pirelli, il primo, come detto, ripropone lo schema medioevale del castello, il secondo la moderna essenzialità e la trasparenza. In tempi più recenti, nel 1973, viene realizzato il Terzo palazzo uffici, un edificio con pianta a croce disegnato dallo studio Albini e Helg, alto 17 metri con bande rosso scuro dei rivestimenti esterni (le bande hanno la funzione di racchiudere e proteggere le canalizzazioni dell’impianto di climatizzazione, che è posizionato all’esterno per consentire una manutenzione più agevole e anticipa quella divisione architettonica dei servizi a vista esteriore, come nel Beaubourg parigino di Renzo Piano) e poi, nel 1984, il Quarto palazzo Uffici, caratterizzato da una facciata continua, austera e omogenea. All’ingresso viene collocata una scultura di Arnaldo Pomodoro.

Un Quinto palazzo uffici di Eni, verrà inaugurato nel 1991. L’edificio, progettato dagli architetti Roberto Gabetti e Aimaro Isola, sulle indicazioni di Kenzo Tange (l’architetto giapponese morto nel 2005, che aveva progettato lo sviluppo urbanistico di San Donato con i nuovi quartieri, Affari – Palazzo della Bmw e San Francesco), fronteggia i primi due Palazzi Uffici formando un ideale ingresso tecnologico alla città di Milano, una Défense meneghina, tutta in cristallo verde azzurro. La facciata sembra una serra verticale ed è rivestita da una vegetazione che garantisce una particolare climatizzazione agli spazi interni.

Nel cortile interno è stato realizzato un laghetto artificiale di duemila metri quadrati. In questi anni si sta realizzando un sesto palazzo uffici ma le difficoltà finanziarie ne stanno ritardando l’esecuzione. Sono gli stessi problemi che hanno portato l’Eni alla vendita del Quinto a una società americana.

Nel 1951 il censimento della popolazione del comune di San Donato Milanese registrava 2.667 abitanti. Quello del 1961, il primo dopo la nascita di Metanopoli, ne contava 10.296 (+ 286%) e nel 1971 si arrivò a 26.872. Nel 1976 gli fu concesso il titolo di città e oggi conta circa 32mila abitanti.

Negli anni Novanta l’Eni da società pubblica diventa una società per azioni e decide di liberarsi delle proprietà immobiliari, contrattando, nella maggior parte dei casi la vendita dei condomini agli stessi abitanti. Nel 2003 la Regione Lombardia approva l’introduzione del vincolo paesistico ambientale per l’ambito di Metanopoli.