Paradiso infernale: il ritorno dei profughi siriani

L’odissea dei profughi siriani, dall’inferno della guerra ai campi profughi in una Turchia che li usa come ricatto economico, li spinge in Europa e poi li costringe a ritornare.

Ad Allah appartengono l’oriente e l’occidente, quindi, ovunque vi volgiate, ivi è il volto di Allah” recita al-Baqarah, la seconda e più lunga sura del Corano.

Mai come in questi in tempi migliaia di profughi siriani hanno potuto cimentarsi con la parola rivelata a Maometto. Da mesi sono sballottati tra campi profughi e strutture umanitarie, tra Turchia e Unione Europea, tra la disperazione e l’illusione della salvezza, tra Oriente e Occidente.

Guerra senza fine

La guerra civile che ha dilaniato il loro paese d’origine si appresta a celebrare il decimo anniversario dal suo avvio, e non dà segnali di un’imminente risoluzione. Il 15 marzo 2011 iniziavano le prime proteste di piazza nel paese che dal 1970 è governato dalla dinastia degli Assad, il padre Hafiz prima e Basar dal 2000. Da allora ci sono stati 384mila morti e il più gran numero di profughi dalla Seconda guerra mondiale. Rispetto ai 20 milioni circa del 2011 – ad oggi è ancora complicato fare un censimento accurato della popolazione – più della metà dei siriani ha dovuto abbandonare la propria casa. Ci sono 6 milioni di rifugiati interni alla Siria e altri 5 milioni e mezzo di siriani scappati all’estero.

Il vicino Libano, con una popolazione di 4 milioni e mezzo di persone, ospita 1 milione e mezzo di siriani. La Turchia al momento ne accoglie 3 milioni e 600mila, molti nei campi allestiti con una parte dei tre miliardi che l’Unione Europea ha versato al “sultano” Erdogan. Gli altri sono chiamati “rifugiati urbani” sebbene non vivano necessariamente nelle città, ma anche nelle campagne della penisola anatolica. Qualcuno ce l’ha fatta: oltre un milione di siriani è riuscito ad arrivare in Europa, soprattutto in Germania. Tantissimi rimangono invece bloccati in un limbo, sospesi tra paradiso e inferno. Sono le migliaia di profughi sballottati tra due mondi, vicini e al tempo stesso inaccessibili. La Turchia ha dichiarato di non poterli più tenere, l’Europa non li vuole e li respinge anche con la violenza. Edirne in Turchia, Kastanies in Grecia, Svilengrad in Bulgaria. Una striscia di terra di 120 chilometri di confine, “limes” nella lingua che per mezzo millennio ha amministrato la Tracia.

La porta tra Oriente e Occidente

In questa zona del mondo, una cattiva gestione del fenomeno migratorio è stata pagato a caro prezzo. La battaglia di Adrianopoli – oggi Edirne, nella propensione europea della Turchia – ha dato vita a un contraccolpo che ha innescato l’avvio del crollo dell’Impero romano d’Occidente. Mancanza di visione d’insieme, di strumenti gestionali e di coordinazione, l’assenza di una strategia programmatica, hanno accelerato il declino della più stupefacente entità statale dell’antichità.

Il 9 agosto 378 d.C. si scontrati l’Impero romano e i Goti che si erano ammassati alla frontiera del Danubio. In un paesaggio agricolo, ricco di aree lagunari – dove ancora oggi si possono trovare alcune delle colonie di uccelli acquatici più grandi d’Europa – e costellato di cittadine che hanno conservato l’aspetto tradizionale con i tipici tetti rossi e i minareti che ricordano di come il territorio ottomano arrivasse fino in queste regioni. La Tracia occidentale è una terra ricca di storia, cultura, arte e meraviglie naturali. Diciassette secoli fa, la porta tra Oriente e Occidente è stata bruscamente spalancata. In questi giorni, migliaia di persone inermi – 140mila secondo le fonti turche – tornano a bussare in quella terra di frontiera. Il loro respingimento rischia di segnare il trapasso di un’altra entità sovranazionale.

Un contrasto ai limiti dell’umanità

Cinquecento chilometri a sud della Tracia, si staglia l’isola di Lesbo: la patria della poetessa Saffo, una conchiglia in mezzo al mar Egeo. Il mito vuole che Egeo, re degli ateniesi e padre di Teseo, si gettò in mare quando vide la nave del figlio con le vele nere, falso presagio della morte del figlio in missione per uccidere il Minotauro; la leggenda ha dato invece il nome di “Salto di Saffo” a una caletta in prossimità di una rupe da cui la poetessa si sarebbe tuffata per un amore non corrisposto.

Naufragare nelle acque dell’Egeo è un dramma che non appartiene solo al mito e nemmeno all’antichità.

Il 2 marzo si è svolto il “lunedì puro” a Lesbo, la fine del carnevale per gli ortodossi: è festa, non si lavora, si organizzano dei picnic con la famiglia, si mangia pane azzimo e si fanno volare degli aquiloni colorati. Il lunedì di festa a Lesbo è segnato soprattutto dalla notizia della morte di un bambino siriano di quattro anni, annegato mentre attraversava il mare con la famiglia e altre 48 persone a bordo di un gommone che è affondato. Ai bordi delle strade di Mitilene, il capoluogo dell’isola, gli ambulanti vendono pesci volanti di carta, soli colorati con le code, ma a fianco dei venditori camminano dei militari in mimetica che pattugliano le strade e le spiagge con i mitra spianati e i cani al guinzaglio. Sull’isola, che nel 2015 ha accolto migliaia di profughi siriani, l’atmosfera è cupa.

L’Isola di Lesbo vive da tempo un contrasto ai limiti dell’umanità, le foto di quest’estate immortalavano turisti in bikini che osservavano i barconi da cui scendono i profughi. Lesbo è un sogno per turisti, e sempre più una prigione a cielo aperto per decine di migliaia di migranti, molti sono bambini.

La speranza alle spalle, ritorno alla disperazione

Un esodo biblico è avvenuto dal nord ovest della Siria, l’ultima zona del paese contesa. Russi e Assad da una parte, turchi e ribelli dall’altra. In mezzo i civili, l’escalation militare nella zona di Iblid ha spinto alla fuga quasi un milione di persone. Erdogan ha “riaperto il rubinetto”, lasciando passare i migranti che dalla Turchia con ogni mezzo hanno cercato di raggiungere le coste europee. Fino a giovedì 6 marzo, quando a Mosca, Erdogan ha firmato un memorandum con Putin per un’intesa sulla gestione del conflitto siriano. Incassata la tregua a Idlib, per l’ennesima volta il “sultano” ha presentato il conto a Bruxelles. Ottenuta la ricompensa, Erdogan ha ordinato alla Guardia costiera di impedire ai migranti di attraversare il Mar Egeo per raggiungere l’Europa “a causa dei rischi che corrono”.

Così ora si andrà ancora a una mediazione tra Bruxelles e Ankara, Erdogan manterrà nella terra di nessuno i suoi ostaggi fin quando l’Unione non gli avrà aumentato il dazio.

Vengono stoppati in mezzo al mare, per tornare indietro. A poche miglia da quella che per molti è una meta turistica si ferma la ricerca della felicità dei profughi siriani. Vengono stoppati in mezzo al mare per fare retromarcia: con l’Europa alle spalle e la tristezza davanti agli occhi.

Tornano in territorio turco, si riavvicinano alla patria che non conosce pace. Una casa che vuol dire guerra.