Sul monte Kailash

Dopo due anni. E di nuovo riassaporo l’odore intenso dei piccoli mercati che dal quartiere di Thamel si spingono verso la città vecchia. Profumi e sguardi.

Mi atteggio un po’ da esperto, è la terza volta che calpesto questi vicoli…
Rispetto al passato sono un po’ appesantito (il grande specchio posto all’uscita dell’aeroporto internazionale di Kathmandu mi ha rimandato un’immagine di me che mi ha sorpreso ed incuriosito) ma ho la netta sensazione che questo viaggio potrà alleggerirmi, quanto meno verrò obbligato a maggiore levità (questioni tecniche, l’altitudine e relative risposte fisiologiche).

Questa volta son qui per andare verso il monte Kailash. Insomma un’intenzione che mi porto appresso da parecchio tempo. Il Kailash è un invito, ineludibile, posto nel Tibet occidentale, un monte di quasi settemila metri, una verticalità primigenia, la bellezza e il cortocircuito spirituale per quanti credono che camminare significhi innalzarsi ad altre sponde di vita.
Non mi curo di me, non mi azzardo in tentativi di discettazioni spirituali o filosofiche.

Voglio andare lì. Punto. Voglio sentire il respiro della terra sull’altipiano, voglio il caldo abbraccio portato dal silenzio dell’altopiano, voglio sentire la mia chimica interiore che cambia con il cambiar di quota, innalzandosi. Voglio capire se sono ancora capace di sentire.
Quindi mi rivolgo a una piccola agenzia che, stando a quanto dichiarato sulle piccole vetrine del locale posto sulla strada, garantisce un’organizzazione personalizzata e tempestiva.

Ma c’è un tempo per ogni cosa e quindi prima di risolvere le mie questioni di viaggio legate all’occidente del Tibet mi concedo una sosta presso un internet point.
Non mi collego ad alcun terminale, nessun messaggio da inviare, nessuna parola da ricevere da chicchessia ma in quel luogo, tra computer e frigoriferi contenenti bibite ghiacciate, due giovani nepalesi preparano frittelle di legumi davvero appetitose. La mia ragion d’essere lì risiede nel segreto della loro sapienza culinaria. Segreta, appunto, e per certi versi magnetica.
Ho memoria di questo piccolo spazio, non so se le persone che ci lavorano sono le stesse, certamente il piacere della sosta è rimasto inalterato.

Entro quindi nell’agenzia, mi siedo e attendo di poter esprimere quanto desidero. Si presenta a me un giovane uomo, bello, molto bello, sguardo duro e scuro e labbra dolci. Lui è Kapil, il titolare dell’ufficio.
Prima che io possa parlare mi offre una coppa in terracotta di vino nepalese. Beviamo e ci scambiamo i saluti di rito. Il vino è buono e forte, mi piace e chiedo il bis. Quindi, spiego le ragioni della mia presenza.
Mi guarda e con un semplice gesto mi invita a prendere tempo e a seguirlo.

C’è un tempo per ogni cosa, mi fa capire. E capire in certe situazioni è porre veto a se stessi, alla propria volontà di non comprendere, di non seguire.

Quindi seguo. Ci inoltriamo lungo vicoli pregni di voci e di odori sui quali si affacciano negozi e locali di ogni tipo. Non guardo: ascolto, sento e seguo.
Presto giungiamo nel distretto delle ambasciate e consolati vari, non troppo distante dal Palazzo Reale, ed entriamo in un negozio di gioielleria.
“Lui è Kai” esordisce Kapil presentandomi a un distinto uomo sulla sessantina.
Il negozio è a dir poco sontuoso, vetrine dappertutto e gioielli e monili in ogni dove. Qualcosa da far perdere la testa a chiunque.
“Kapil… non sono a Kathmandu per comprare gemme…” cerco di essere gentile e definitivo.
“Io voglio andare al Kailash”.
“Questo l’ho capito” mi risponde” – però prima devi vedere le nostre acquamarina e i rubini, pietre vere… poi quando vengo a Milano magari si fa un po’ di business…”.
“Voglio andare al Kailash” rispondo.
“Ok Carlo, però prima, prego, guarda le pietre di Kai”.
Le pietre sono in realtà bellissime, nulla da dire, ma io sono lì per altro.
“Compra gemme di acquamarina e farai felice una donna. Non conosci una donna con occhi di acquamarina? Conoscila e compra tre pietre. Tre servono per il tuo divenire”.

Kai sorride, mostra le pietre e quasi non parla. A un certo punto però mi mostra un rubino grezzo ancora inglobato nella roccia primigenia… è una pietra lunga almeno quattro centimetri e con un diametro di almeno uno.
Non se ne potranno cavare gioielli, è scura e opaca e quindi inutilizzabile ai fini del mercato. Però ha una domanda dentro, o forse un invito che chiede di essere condiviso. Scavare, entrare dentro, andare in profondità.
Kai me la porge e sommessamente mi invita a coglierla come suo regalo anche se non comprerò gemme di acquamarina.
“Vai al Kailash e quando torni vieni di nuovo qui. Sentirò.”

Ringrazio Kai e nel mentre (il mio sentire è quasi completamente svuotato da qualsiasi tipo di agguato autoindotto) Kapil mi confida di essere di stirpe indiana… da tre o più generazioni i suoi avi sono venuti ad abitare in Nepal. Non si ricorda più se le sue origini sono riconducibili al Bengala o al Sikkim… ma in ogni caso a Kathmandu si trova bene e la sua piccola agenzia funziona. Lui con i funzionari cinesi di stanza al confine con il Tibet ha buoni rapporti.

Dunque rientrati nel suo ufficio riprendiamo il bandolo del discorso.
“Voglio andare al Kailash” sentenzio con piglio definitivo.
“Ok Carlo, ma da solo non puoi” mi risponde Kapil.
Per com’è fatta la mia natura in quel momento penso di essere finito nel posto sbagliato, ma poi mi costringo a un’ulteriore domanda.
“Perché? Sono in regola… tutto a posto… Perché?”.
Kapil mi guarda esprimendo sana consapevolezza imprenditoriale.
“Vedi signore” – mi dice – “i cinesi non lasciano entrare una singola persona, dovete essere almeno due. Così facciamo i documenti, organizzo i mezzi e voi partite.”
“Voi? Mai io sono uno, non sono due. Kapil io voglio andare al Kailash”.
“Ho capito, ma tu devi essere due. Tra qualche giorno arriva una persona che vuole lo stesso che vuoi tu, posso mettervi insieme”.
“Io non voglio un’altra persona”. Testardo e scarsamente incline alla condivisione, io.

Kapil versa un’altra coppa di vino, me la porge e guarda con curiosa intensità l’anello di turchese che porto su un dito della mano destra.
“Vendimelo!”
“Non se ne parla” rispondo.
“Ti faccio entrare in Tibet senza tasse.”
“Scordatelo. Questo anello è un divenire, è un sentire. Voglio andare lì, ma l’anello lo porto con me. Con o senza tasse.”
“Ok… “Kapil si dimostra serio e comprensivo e mi informa sul possibile da farsi.
“Per il Tibet e il Kailash finché non arriva il nuovo cliente non c’è nulla da fare però se vuoi puoi andare in Bhutan.”
Ricordo il mio vibrare al solo sentire il nome Bhutan.

Il piccolo Stato prevede un ingresso decisamente contingentato e poter usufruire del visto d’ingresso è affare non semplice. Ma così va, una coppia olandese ha dovuto forzatamente rinunciare al viaggio quindi si sono “liberati” due posti.

Bhutan… è un’altra storia meravigliosa…
“D’accordo Kapil” – mi sento dire prima di avere avuto il tempo di ragionare con necessaria consapevolezza – “ma poi?”
“Poi vai al Kailash, quando torni dal Bhutan in due giorni vai verso il Kailash con la tua compagna di viaggio.”
“Compagna?” – mi sento schiacciato in un abbraccio non richiesto
“è donna.” dice Kapil” Qualche problema?-
“No, nessuno. Ma io voglio andare al Kailash. Se lo vuole anche lei, se lo vuole davvero, io so essere un compagno di viaggio…. quasi insostituibile…”.

Kapil mi guarda e offrendomi un’altra coppa di vino nepalese non mi risparmia (fortuna mia) il suo dire.
“Vai in Bhutan e cerca di tornare. Poi fai il tuo in Tibet. C’è una donna. Sappi che lei è maestra in questo viaggio. Impara da lei e senti quando sarai sopra l’altopiano. Impara da lei e prova a sentirti un po’ donna perché l’uomo, da solo, non può comprendere la meraviglia di quanto avrai la fortuna di scoprire”.

Ascolto Kapil, ascolto con un’intensità che non mi è solita. Il Bhutan e poi questa donna…. Il Tibet. E un’altra coppa di vino nepalese.
Domani andrò lungo la valle di Kathmandu, verso Patan o Bakhtapur a riascoltare i canti degli anziani che riannodano i fili del tempo, oppure le giocosa grida dei giovani studenti che, all’uscita di scuola, fanno a gara per conquistare un piccolo aquilone.

Assoluta bellezza

L’aereo da venti posti che mi ha ricondotto in Nepal dal Bhutan partendo da Paro è appena atterrato.
Il volo è stato tranquillo.
Il Bhutan, la sua gente, è dentro nelle mie gambe e nelle braccia come una spinta nuova, una meraviglia che saprà crescere nel tempo.
Ora devo affrettarmi a tornare nel quartiere di Thamel e ritrovare Kapil che mi deve presentare alla mia compagna di viaggio per il Kailash.

Ritrovo la pensione dove avevo lasciato una parte del bagaglio, mi lavo velocemente e corro verso l’agenzia.
“Tutto bene Carlo?”
“Benissimo Kapil, davvero”.
“Verso le sette arriva la tua compagna, così vi conoscete. La partenza è per dopodomani. Il passaporto te lo restituisco timbrato domani sera con i documenti di viaggio per le autorità cinesi. Attenzione a non far ritardi… avete diciotto giorni. Dopo si rischia.”
“Ok Kapil ma se questa sera mi ferma la polizia? Non ho documenti… cosa racconto?”
“Nel caso dì a loro di venire da me… nessun problema, credimi.”
“D’accordo.”

Puntualissimo alle diciannove mi presento nei pressi dell’agenzia, il monsone nel frattempo ha ricominciato a far sentire la sua forza eruttiva: dal cielo arrivano rovesci d’acqua violenti, i carrettieri che trasportano merci si affrettano per cercare un minimo di riparo sotto qualche tettoia, i commercianti si guardano bene dal mettere piede fuori dai locali.
Io aspetto.
D’un tratto vedo una donna che si dirige con fare deciso verso di me… o meglio dentro l’agenzia.
Non mi guarda, entra. Si siede e inizia a parlare con Kapil.
Lui, osservandomi attraverso il vetro, fa gesti e mi indica con fare quasi sornione. Eccoci, finalmente siamo all’incontro.

“Ciao, io sono Inna.”
“Io Carlo, piacere” rispondo sommessamente.
“Quindi andiamo al Kailash insieme.”
“Così è… sei svedese?” (curiosità inutile la mia)
“No, finlandese… di origini russe. Volevo andare da sola ma mi hanno detto che è impossibile… quindi ci sei tu. Per me va bene. Basta non starsi troppo addosso”.
“Benissimo, l’importante è essere chiari sin dall’inizio. Io voglio andare al Kailash e questo è quanto. Ora ci siamo conosciuti e quindi ci vediamo domani per i dettagli”.
Kapil, che è uomo attento e professionista imprenditorialmente impeccabile, ci invita a bere una coppa di vino per sciogliere ipotetiche tensioni e iniziare il viaggio sotto i migliori auspici.
Il vino è buono, l’avevo già gustato un po’ di giorni fa, e Inna è davvero bella: occhi azzurri di pura acquamarina e labbra che si aprono spesso al sorriso.

Inna.

Io voglio andare al Kailash.

Kapil ci riporta al necessario: “Domani alle tre qui in agenzia, conoscerete le guide e gli autisti, una jeep e un camion di supporto. Le piste sono dure, non si possono correre rischi… non troppi. La prima guida e gli autisti sono nepalesi….poi a Kodari troverete la seconda guida, un giovane tibetano. È bravo e non ha mai perso nessuno”.
Kodari è il posto di confine nepalese con il Tibet e da lì si arriva a Zanghmou, primo villaggio in territorio tibetano presidiato dall’esercito cinese. Poi si sale al plateau e si va verso ovest, direzione Darchen, alla base del monte Kailash.

Appena sotto c’è il lago Manasarowar.

È lì che voglio andare.

Kapil ci chiarisce alcuni dettagli: “La jeep è una Toyota rinforzata e con finestrini a tenuta d’acqua (capiremo in seguito l’importanza di questo elemento tecnico), il camion è cinese, due assi a passo corto. Non state mai troppo distanti, massimo trecento metri. Distanza di voce insomma” .
Mi alzo e faccio un cenno di saluto.
Kapil mi afferra un braccio e con fare suadente mi invita a più consono atteggiamento.

“Carlo, io credo sia bene che tu e Inna questa sera ceniate insieme. Così vi conoscete e domani organizzate meglio il viaggio. È bene se lo fai, credimi”.

Guardo Inna ma la mia testa è sulle piste che portano a ovest e non riesco ad avere una condotta particolarmente invitante.
Quindi questa sera ognuno per sé, penso alla Toyota e a quanto dovrò portarmi appresso.
Vedo Inna allontanarsi sotto il monsone: non mi sembra delusa dalla mia incapacità attrattiva, piuttosto anche lei ansiosa di partire.

Trascorro la sera al Thamel, la pioggia per il momento ha smesso di battere ritmi duri e si può passeggiare senza grossi problemi.
Mangio qualcosa, bevo un po’ di vino e poi rientro a preparare il bagaglio.
Una parte di quanto portato dall’Italia lo lascerò in giacenza presso la pensione, come ho già fatto altre volte. Francamente non me ne curo più di tanto.
L’unica difficoltà o imbarazzo è legato alla scelta dei libri che porterò con me; non so quanto e se leggerò ma non posso farne a meno.
I libri sono un “non peso”, un divenire sempre.
Sono comunque costretto a fare scelte tra i vari volumi che ho inserito nello zaino prima di partire dall’Italia.
Rinunciare a questo o a quello è come offendere questo e quello, mi dico, ma davvero tutta quella carta in Tibet è impossibile da portare.
Considero che andremo sopra i cinquemila metri e i sentieri da percorrere non saranno agevoli.

La scelta s’ha da fare e velocemente: Grande Sertao di Guimaraes Rosa, Il Cinese di Friedrich Glauser e Viaggio in Barberia di Luciano Bianciardi.
Questo è quanto mi porterò appresso.
Un sacchetto di plastica per proteggerli dalla pioggia. Meglio due.
Guardo fuori dalla piccola finestra della stanza che ho in affitto: forse più che vedere sento.
Per un attimo vengo attraversato dallo sguardo acquamarina di Inna… meraviglia assoluta. Davvero.
Io però voglio andare al Kailash, sono tornato in Nepal per questo e non per altro.

La mattina si presenta grigia e tumultuosa.

I vicoli del Thamel sono tutti di fango, l’acqua che nella notte ha inondato la città ristagna un po’ dappertutto… ho fame e soprattutto desiderio di partire. Nel pomeriggio incontrerò gli autisti e la guida. Segno alcuni appunti su di un taccuino, cose semplici ma da non dimenticare.
Ho ancora alcune ore prima del rendez vous e quindi mi accordo con un giovane autista per farmi portare a Pashupatinath, tempio villaggio che sorge sul fiume Bagmati, ai confini orientali di Kathmandu.

D’improvviso il cielo s’apre come a volerti stringere in un immenso abbraccio benevolente… penso che è bene, è ciò che ci vuole prima di partire.

Sì, mi piace. Mi sento intimamente ristorato, Pashupatinath è un dispiegarsi di luoghi segreti, volti che appaiono e raccontano bellezza, acqua che scorre, scimmie inquiete che corrono e balzano un po’ dappertutto. Dall’alto vedo ragazzini che si tuffano nel fiume, donne e uomini che procedono con calma lenta alle quotidiane abluzioni, più lontano scorgo i fumi delle pire funerarie.

Il Bagmati per i nepalesi è come il Gange, la grande madre, e nel riassociarsi all’acqua, trascorso e superato il rito di fuoco, si torna a essere viva testimonianza. Sempre.
Devo rientrare: attraverso il mercato delle tinture dei colori e trovo un giovane che con una moto 120cc mi riaccompagna verso il centro.
Facciamo una specie di baratto: lui mi trasporta e io questa sera gli offrirò la cena.

Sono decisamente contento.

Mentre procediamo sullo sterrato il giovane centauro cerca di parlarmi, credo di aver capito che si chiami Saikhan… io per lui mi chiamo “Lo” poiché il mio nome, pur breve, è per lui ostico.
Quindi “LO”, semplice e diretto.
Questa sera al Thamel mangeremo carne e berremo vino.
Prima però devo risolvere l’organizzazione per la partenza di domani e alle tre meno dieci sono davanti alla piccola agenzia di Kapil.
Inna è già presente e con lei un piccolo drappello di persone. Parlano stretto e avvicinandomi a loro colgo i loro sorrisi.

Inna è proprio bella, accidenti.

Iniziamo con le strette di mano e Kapil ci presenta Rohit, la prima guida nonché cuoco, poi Narayan, autista della jeep e Hari, il secondo guidatore che dovrà condurre sulle piste dell’altipiano il camion di supporto. Domani incontreremo Tseren, la guida tibetana.
Andati oltre ai convenevoli di rito ci vengono impartite precise istruzioni e ci spieghiamo sul da farsi; d’un tratto Kapil si scosta dal gruppo e mi fa cenno di seguirlo.
Lo guardo con fare interrogativo ma questa volta credo che lui non ammetta repliche o resistenze. “Carlo tu questa sera inviti a cena Inna, ti suggerisco io il nome di un buon locale dove stare bene. Dovete conoscervi prima di partire, credimi, è importante”. Incrocio il suo sguardo e sento che non ha torto “Poi domattina presto sarete in marcia e sarete davvero compagni di viaggio. Il Kailash è lontano, le strade dure, bisogna andare d’accordo”.
“Va ben Kapil, dimmi dove devo andare questa sera. C’è anche un amico con me”.

Poco dopo, definiti gli ultimi dettagli, il nostro piccolo gruppo si scioglie e prima che Inna si allontani le propongo di trascorrere la serata insieme, le accenno di Saikhan: non sembra sorpresa… mi guarda e sorride “Ok Carlo, vediamoci verso le sette, ho ancora un po’ di cose da preparare e sistemare e non voglio far tardi. Domani all’alba saremo in partenza e voglio dormire un po’.”

Linea di condotta assolutamente saggia e ragionevole. Nell’allontanarmi le rispondo con un laconico “A dopo”.

Riprende a piovere, ma in questo momento mi appare tutto ammantato da assoluta bellezza.

Sulle piste dell’altopiano

Ieri sera il tempo è trascorso piacevolmente: Saikhan ha cenato abbondantemente e ha mostrato di apprezzare tutto quanto è stato portato in tavola. Ragazzo gentile, poco loquace ma di grandi sorrisi; si è accomiatato presto, doveva tornare al suo lavoro e di sera con la pioggia battente diventa tutto un po’ più faticoso.

Inna mi ha fatto qualche cenno sulle sue origini: dalla Russia nord-occidentale i genitori si spostarono in Finlandia. Erano ancora molto giovani, i tempi erano duri a causa degli eventi bellici, ma avevano stretto un patto che li portò a consolidare la loro unione e a fare casa e poi una famiglia. Inna è nata agli inizi degli anni ’60 e a sedici anni ha iniziato a viaggiare per l’Europa, per poi trovare fissa dimora in bassa Toscana, lungo il confine con il Lazio.

Mi racconta che rimase letteralmente ammaliata da Pitigliano.

“Sono passati tanti anni Carlo, allora avevo un fidanzato che non scendeva mai dalla sua Norton e quindi eravamo sempre sulle strade. Quando arrivammo a Pitigliano credetti di non potermi riprendere dall’emozione che provai nello scorgere il borgo abbarbicato sulla rocca di tufo. Impiegai un attimo per decidere di trasferirmi in quei luoghi. Il mio fidanzato prese altri percorsi”. Kathmandu è anche questo: riesce a farti raccontare di te.

Siamo seduti all’interno di una terrazza coperta, piove ma non ce ne curiamo: da un internet cafè posto sotto di noi ci arriva il flusso di una musica lieve, una sorta di lounge sound arricchito da sonorità prettamente indiane.

Voglio tornare nella mia stanza e ricordarmi di mettere nello zaino il rubino che Kaí mi ha donato. Saluto Inna: “A domani”. “Sì, alle sei … non tardare. Io sono puntuale”.

Arrivato alla pensione do un ultimo sguardo alle strade e ai viottoli invasi da acqua e fango, scalpiccio di piedi e profumi di pietanze che arrivano da luoghi vicini.

Il mio zaino da 110 litri è praticamente pronto ma io a volte divento noioso con me stesso e quindi lo svuoto per ricontrollare tutto quanto mi servirà per il viaggio.

Al Thamel ho acquistato alcune cose: una felpa d’altura, un paio di corde da venti metri (non so se e come le userò ma già in passato il cordame di montagna si è rivelato un aiuto essenziale) e una torcia. Nel quartiere sono presenti non pochi negozi che vendono materiale tecnico da alpinismo.

Il fatto è questo: gente da tutto il mondo (più o meno esperti, più o meno consapevoli) convergono a Kathmandu per organizzare le spedizioni che poi porteranno i gruppi di punta a raggiungere le vette dell’Himalaya. Sulla via del ritorno per molti di loro risulta più comodo e conveniente lasciare tutto quanto si è portato dalle proprie terre in loco: una quantità indefinita di squadre e spedizioni ritiene opportuno, per questioni di tasse imposte al rientro delle merci nei luoghi di appartenenza, abbandonare o svendere le proprie attrezzature prima del rientro.

È un vero mercato legato ad una altissima tecnologia di salita e alla sopravvivenza stessa; non manca nulla, dai nuts (sorta di cubetti di varie dimensioni da inserire nelle fessure delle pareti verticali per potersi assicurare e quindi procedere) ai sacchi a pelo che garantiscono copertura sino a  -40°, poi l’abbigliamento tecnico, corde, caschi, amache da bivacco in parete, chiodi, geolocalizzatori e cibo liofilizzato.

Anche questo è il Thamel.

Sei meno dieci, sono sul posto e già trovo presenti Rohit, Narayan e Hari. Tseren salirà a bordo a Kodari. Inna non c’è.

Sei meno cinque, un caffè veloce e un ultimo controllo allo zaino. Guardo all’interno del camion: sul pianale sono collocate le riserve alimentari che ci serviranno lungo il viaggio. Non indago più di tanto, mi fido di questi uomini. Kapil mi guarda di sottecchi e mi sorride: nel mentre definisce gli ultimi dettagli di viaggio con Rohit.

Sei meno due e dall’angolo della via compare Inna.

Questa donna, accidenti, è veramente bella stamani, anche se il suo sguardo risulta un po’ accigliato. Ci siamo tutti: Kapil ci porge i documenti personali e i necessari visti d’ingresso per il territorio tibetano/cinese.

Saliamo sui mezzi: non ci vuol molto per uscire dall’abitato di Kathmandu. Le strade sono fangose ma in pochi minuti ci troviamo ad attraversare la valle che conduce a nord, verso le impervie salite che conducono al Passo di Kodari. Un centinaio di chilometri circa.

In questo momento, mentre Narajan guida la jeep osservato con scrupolosa attenzione da Rohit, torno a guardare Inna, affaccendata nel porre ordine in un piccolo zaino di supporto (quello grande è sul camion). Sento che tutto sta andando per il meglio e avverto una spinta che vorrebbe, in pochi istanti, condurmi verso il Kailash. Minuti, fraseggi di pensieri, lampi e impalpabili emozioni. Poi, mentre la strada si fa più tortuosa, mi torna alla mente un romanzo che lessi un po’ di tempo fa: “La Scoperta della Lentezza” di Sten Nadolny. Ecco, un incedere malinconico ed elegante, una vita attraversata e raccontata non per aver voluto cronometrare il tempo del proprio incedere ma per aver trovato conoscenza nell’uso delle mani e dei piedi, profondità negli sguardi di altri, nuovo fluire attraverso il dolore di assenze estese e silenzi verticali.

Mentre saliamo al Passo di Kodari la strada si fa sempre più accidentata: in questo periodo dell’anno le violente piogge monsoniche penetrano negli sterrati e provocano regolarmente frane e smottamenti. Procedendo incontriamo gruppi di operai, spesso tibetani, che in condizioni a dir poco disagevoli provvedono al ripristino di una seppur precaria viabilità.

Nei pressi di una strettoia siamo costretti ad una breve sosta per consentire il passaggio ad alcuni mezzi che giungono in senso contrario al nostro. Guardo questi giovani operai lavorare tra il fango e le rocce e odo i loro canti che, ritmando l’azione collettiva, si levano dai volti sudati inseguendo le correnti dei venti che in queste zone muovono il respiro e il pensiero.

Lungo la strada alcuni camion carichi di merci rimangono bloccati con l’asse posteriore sprofondata nel terreno: gli autisti sono abituati a questi piccoli incidenti, aspettano calmi che gli stessi operai vengano in loro aiuto, sistemando le massicciate. Con un paio di sigarette si risolve il compenso a loro dovuto per il lavoro svolto.

Kodari è una specie di piccolo villaggio, ultimo avamposto per poter provvedere a eventuali approvvigionamenti prima di superare il Ponte dell’Amicizia che, dopo una stretta e profonda gola rocciosa, conduce alla frontiera cinese e poi all’interno del paese di Zhangmu.

Ci fermiamo giusto quanto serve per consentire a Rohit di presentarsi all’incontro con Tseren che lo sta aspettando all’interno di una baracca adibita a spaccio alimentare. In breve i due ci raggiungono e fatte le dovute presentazioni ci accingiamo a superare l’ostica frontiera militare cinese (Rohit mi mostra alcuni prodotti alimentari appena acquistati, serviranno a snellire almeno di un poco le noiose procedure d’ingresso gestite dai soldati). In ogni caso le regole d’ingresso prevedono la sosta obbligata di una notte a Zhangmu: il piccolo paese (case di mattoni e baracche poste lungo la strada e su pendii che sovrastano la valle sottostante) è decisamente inospitale ma non sento alcuna pressione negativa.

Osservo i pochi negozi sull’unica strada e gli sguardi di giovani ragazzi vestiti con uniformi militari che seguono il mio vagabondare. Ai loro occhi devo risultare decisamente curioso: i miei capelli quasi biondi, unο zaino imponente e il grosso anello di turchese al dito della mano destra.

La pioggia riprende a scrosciare copiosamente e per la notte non c’è molto da scegliere, in ogni caso ci arrangeremo. Narayan e Hari dormiranno sui mezzi mentre Rohit e Tseren verranno ospitati da amici. Inna mi segue mentre verifico un paio di possibili soluzioni: molto altro non c’è e quindi depositiamo gli zaini all’interno di una piccola locanda. Stanze piccole e decisamente spartane, niente luce e acqua corrente, per una notte (dal momento che fuori il monsone ha ripreso con forza a battere il suo ritmo) andrà benissimo.

Cena veloce e frugale e poi in cerca di sonno in attesa dell’alba e della partenza per l’altopiano Inna è decisamente taciturna: ogni tanto mi guarda, più spesso il suo sguardo si spinge lontano, verso nord-ovest.

Siamo di nuovo sui mezzi, la notte è trascorsa tranquilla. Gli autisti mi sembrano riposati, quasi allegri. Rohit mi porge due dolci acquistati poco prima in una bottega di Zhangmu.

Uno è per me e unο per Inna.

Lui mi dice che devo essere io ad offrirglielo. Non discuto e porgo la piccola ciambella alla mia compagna di viaggio. Lei non dice nulla, accetta l’offerta e sorride.

La strada inizia a proporre pendenze significative e impone agli autisti massima attenzione e scaltrezza: Narayan guarda spesso nello specchietto retrovisore per avere conferma che il camion con alla guida Hari sia a portata di vista, e di voce.

Trascorre del tempo e senza aver fatto soste né scambiato dialoghi giungiamo al Nyalam La Pass, a circa 5.150 metri di quota. Verso nord, piegando leggermente a Oriente, si snoda la strada che conduce a Lhasa, noi piegheremo decisamente verso Occidente.

Ci concediamo una pausa, i mezzi soprattutto ne hanno bisogno: Rohit si accinge a preparare un tè, Tseren scruta il cielo e gli autisti, scherzando tra loro, si accompagnano in una breve passeggiata per riallungare i muscoli delle gambe forzati da duro lavoro.

Accendo una sigaretta e osservo con attenzione la bellezza di queste persone; guardo Inna. Beviamo il tè e poco dopo Rohit mi invita a risalire sulla jeep: tra non molto farà buio e dobbiamo trovare un luogo adatto per piantare il campo. Gli chiedo ancora qualche minuto; attorno a noi sventolano lievi centinaia di bandiere di preghiera. Pongo le spalle verso Nord e cercando di cogliere l’aspro respiro dell’Himalaya mi induco a cogliere volti, racconti e leggende che da quelle cime giungono come un vento sottile pregno di benevolenza.

Non credo, sento.

Alla mia destra, visibile in questa ora in cui le nubi lasciano spazio al desiderio assoluto, scorgo lo Shishapangma, montagna che lascia traccia di sè anche in gola. Tutto questo può sembrare accessorio ma non me ne curo. Non lontano da me c’è Inna, ch’è donna bellissima. Tuttavia mi sento spinto nel capire e risolvere altre priorità.

A sinistra, tra cumuli di nubi che si stanno addensando, credo di scorgere la vetta del Cho-Oyu (ma forse è l’altitudine che mi consente di godere di queste visioni), ancora più in là c’è l’Everest. L’aria si fa fredda e ci invita a nuovo movimento. Proseguiamo senza particolare fretta: la pista che stiamo percorrendo non è agevole ma guardando attraverso il parabrezza posteriore noto Hari sorridente alla guida del camion, dunque mi immagino che anche lui stia sentendo la bellezza di questo inizio di viaggio e poi, elemento assolutamente non irrilevante, sa sempre dove piegare lo sterzo del mezzo.

Ecco, alla nostra sinistra si allarga un piccolo pianoro erboso attraversato da un torrente che ci consentirà di lavarci. Piantiamo le tende e accendiamo i fuochi per la cena. Tseren ci annuncia che abbiamo ancora poco più di un’ora prima che riprenda a piovere. Tempo necessario a far tutto. Nel mentre riesco ancora a farmi attraversare dai colori che si addensano sull’Himalaya: blu, giallo, rosso e violetto trasmettono una vividezza vibrante. Continuo a ripetermi che forse è l’altitudine e che il decremento di ossigenazione porta al mio cervello informazioni incongrue. Tant’è.

Mi volto e scorgo Inna, seduta all’ingresso della tenda e impegnata in un rito di preghiera che credo narri di flussi di energia nascosta.

Inizia a piovere ed io, coperto dalla mia giubba d’altura e ancora appesantito dalla mia inadeguatezza fisica e visiva, inizio a piangere. Singhiozzo che arriva diretto dallo stomaco e mi scuote i polmoni, arrivo a subire momenti di apnea respiratoria. Piango e per poter contenere il flusso di questo dirompente accadimento mi accendo una sigaretta. Di solito funziona. Sento una mano sulla mia spalla sinistra, mi volto di poco e scorgo Inna.

“Perché piangi Carlo? Non stai bene?”

“Inna, non ti bagnare, rientra in tenda. Piango per quanto ho la fortuna di vedere, annusare e sentire. Anche tu sei una parte di questa fortuna. Ma ora rientra perché io sto piangendo. E l’acqua della pioggia e le lacrime unite diventano miscela esplosiva ed esclusiva”.

Le nostre guide e gli autisti hanno preparato per noi una cena abbondante che consumiamo con piacere. Rohit ci comunica che domani seguiremo un percorso che corre più a sud di Saga, villaggio posto sulla pista principale. Le informazioni che ha ricevuto indicano che la rotta che seguiremo ci consentirà un più agevole guado dei vari corsi d’acqua che incontreremo. Prepariamo i mezzi per l’indomani e altro non rimane da fare se non cercar sonno nei sacchi a pelo.

Inna è silenziosa, so che ognuno di noi due aveva pensato questo viaggio in solitaria, comunque senza altri soggetti umani che non fossero guide e autisti. Inevitabilmente sento il suo odore e ascoltando senza alcuna morbosa attenzione le sue ultime parole di preghiera avverto, in questo istante, di non dover necessariamente trovare un nuovo e personalissimo, e quanto mai presuntuoso, passaggio a nord-ovest. E spero anche che l’odore delle mie ascelle, che esprimono effluvi di mela dolce, non sia per lei troppo fastidioso.

Il campo è levato e dopo una veloce colazione ci rimettiamo sulla pista. Il cielo è sufficientemente sereno e Tseren ci assicura che fino a sera non pioverà. Ad un tratto, superato un colle, la pista appare sbarrata da pali, cartelli recanti intimazioni a non procedere e catene. È un check-point dell’esercito cinese: dal nulla appaiono una mezza dozzina di militari tra cui un paio di graduati. Ci vengono richiesti i documenti di viaggio che prontamente porgiamo a loro; sono ragazzi giovanissimi e Tseren ci spiega che per lo più provengono dalle province orientali della Cina.

Trascorrono turni di sei/sette mesi sull’altopiano prima di essere avvicendati; immediato è il ricordo di Buzzati e del suo Deserto dei Tartari. Rohit e Tseren sanno come agire e in poco tempo otteniamo i necessari timbri sui documenti (qualche biscotto dolce e poche sigarette hanno abbreviato la sosta).

Ora incontreremo l’area più impegnativa: dovremo attraversare alcuni fiumi e nessuno sa con certezza quanto le piogge monsoniche abbiano modificato la portata delle acque.

Il primo attraversamento si presenta immediatamente problematico: la pioggia battente dei giorni precedenti ha invaso una vasta area della piana sui cui corre la pista. Inna e io veniamo invitati a scendere dalla jeep, Rohit inizia a camminare nell’acqua precedendo il mezzo per sondare la stabilità del fondo. Il camion guidato da Hari è rimasto attardato e ancora non compare alla nostra vista. D’un tratto l’asse posteriore della jeep sprofonda nell’alveo del fiume, il motore si blocca e da una distanza di una trentina di metri noto Rohit e Narayan che si affannano nel tentativo di risolvere la situazione. Finalmente arriva Hari con il camion ed eseguita prontamente un’azione di aggancio (un cavo d’acciaio e le mie due corde di arrampicata acquistate a Kathmandu) la jeep è di nuovo fuori dall’acqua.

Sorprendentemente i due autisti riescono in poco tempo a far ripartire il mezzo; va tutto bene, mi guardo attorno e verso sud-ovest mi sembra di scorgere il massiccio del Manaslu. Bellezza allo stato puro, un incedere di pensieri e di sguardi che si alimentano di tensioni estese e verticali. Poco oltre ci aspetta un secondo guado: Rohit cerca il punto più consono per l’attraversamento, si immerge nell’acqua più volte e con i piedi saggia la stabilità del fondo. Ci fa cenno di seguirlo: Narayan ci intima di chiudere i finestrini poiché il livello dell’acqua arriverà a sommergere il mezzo quasi completamente (ora mi è chiaro quanto mi venne detto a Kathmandu a proposito dei finestrini a tenuta stagna). Rohit procede lentamente davanti a noi, l’acqua gli arriva alle spalle, noi, ammutoliti, procediamo senza proferire alcuna parola. Rimanere bloccati qui sarebbe davvero un grosso problema. Narajan è calmo e questo mi conforta; Inna, nonostante tutto, ha uno sguardo sognante. Dopo qualche minuto giungiamo sulla sponda opposta: ora è il momento del camion che cercherà di seguire esattamente lo stesso percorso. Rohit è un po’ preoccupato, mi dice che la portata dell’acqua e il suo livello stanno rapidamente aumentando; mi indica imponenti formazioni di nuvole a nord, al massimo tra tre ore le avremo sopra di noi.

Il camion procede lento e d’un tratto l’asse anteriore sprofonda nel fondo fangoso. Inutili i tentativi di ripartire; il livello dell’acqua cresce velocemente. Hari e Tseren escono dalla cabina e si siedono sul tettuccio: il camion non si abbandona, accada quel che accada. Rohit fa gesti rassicuranti ai due poi mi indica di seguirlo, dice di aver sentito dei rumori non molto distanti. Percorriamo un paio di centinaia di metri, superiamo un piccolo rilievo erboso e nella piana appena sottostante ci appare una brigata di militari cinesi, con tanto di camion pesanti e un mezzo di recupero (un grosso veicolo dotato di verricello e piccoli cingoli). Li raggiungiamo e spieghiamo al più alto in capo il nostro problema: in questo caso biscotti e sigarette servono a nulla ma cento dollari convincono il capitano e la sua truppa a tirarci fuori dai guai (l’intimazione che mi giunge dall’ufficiale è perentoria: non scattare fotografie!).

Mezz’ora, non di più, e tutto è risolto. All’avviamento il motore del camion borbotta ma non dà segni di cedimento, dunque di nuovo in movimento procedendo verso nord per raggiungere il villaggio di Yarexiang e poi Zhongba.

Il nuovo campo per la notte è presto approntato e prima del sonno, ricordando gli avvenimenti della giornata appena trascorsa, incrociamo risate e complici sguardi.

Il giorno successivo trascorre sulla pista con andatura regolare: durante una sosta incrociamo una famiglia di nomadi. Sono bambini, ragazzini e una giovane madre. Ci fermiamo per conoscerci. La loro bellezza è pari solo all’aspra alterità di quanto fino ad ora visto e sentito. I ragazzi ci guardano incuriositi, probabilmente un po’ sospettosi: le loro guance sono cosparse di sangue di Yak spalmato a protezione della pelle.

Le condizioni climatiche sono dure: agli animali non viene fatta particolare violenza, si spilla un po’ di sangue dal collo o dalle gambe anteriori.

Sopravvivenza.

Offriamo loro dei dolci che accettano solo dopo il sorridente consenso della madre, donna bellissima. Domani raggiungeremo il Lago Manasarovar e poi Darchen.

In cammino verso lo spazio dell’anima

La notte è trascorsa tranquilla, i sacchi a pelo d’altura proteggono adeguatamente. Facciamo colazione di buon’ora e quindi procediamo a levare il campo. Ci dirigiamo verso Paryang poi, superato il villaggio di Samsang, giungeremo al lago Manasarovar.

Rohit scruta il cielo mentre Narayan e Hari eseguono i necessari controlli dei mezzi prima della partenza.

Inna ha gli occhi sognanti, lo sguardo fisso verso occidente.

Per quanto mi riguarda, dal momento del risveglio sto pensando ad alcuni scritti di Gary Snyder, poeta e saggista americano: non che i suoi lavori abbiano particolari attinenze con questi luoghi ma il suo profondo amore per la natura e la ricerca di nuovi percorsi di conoscenza e di adesione quasi sacrale a un nuovo principio di spiritualità me lo fanno sentire particolarmente vicino.

Snyder, vincitore nel 1975 del premio Pulitzer per la poesia, è considerato da taluni uno dei più solidi animatori del primo periodo della Beat Generation: Jack Kerouac fu ispirato dalla sua figura tanto da assegnargli il ruolo principale nel suo “I Vagabondi del Dharma” con il nome di Japhy Ryder.

Gli autisti ci fanno cenno che possiamo metterci in marcia: carichiamo gli zaini e iniziamo a inoltrarci lungo una pista leggermente sconnessa che non presenta particolari problemi.
Tutt’intorno è una meravigliosa distesa semidesertica attraversata da lame di luci cangianti; alla nostra sinistra l’Himalaya mostra tutta la sua imponente bellezza che si tinge di giallo e di rosa.

Procediamo per un po’ nel più assoluto silenzio rotto solo dal costante borbottio dei motori dei mezzi. D’improvviso, mentre risaliamo un’altura, Narayan ferma con decisione la jeep e ponendo un braccio fuori dal finestrino ci fa segno di guardare davanti a noi: sul bordo della pista, a non più di venti metri di distanza, si mostra, maestosa, un’aquila reale. è una visione quasi innaturale, un esemplare davvero enorme che ci fissa immobile, solo il capo tende al movimento.

Inna, sbalordita, non può credere d’essere destinataria di un’immagine di così raffinata e struggente bellezza. Rohit mi fa cenno di scendere dal mezzo ma di rimanerne accostato. Non faccio in tempo a eseguire quanto indicatomi poiché l’aquila, probabilmente disturbata dalla nostra presenta e stanca d’osservarci, in un attimo prende il volo dispiegando senza rumore alcuno le imponenti ali. Pochi secondi dopo sentiamo le sue strida e voglio pensare che ci stia benevolmente salutando. Giungiamo a Paryang che altro non è se non un piccolo villaggio attraversato da stretti viottoli fangosi. Facciamo una breve sosta per bere un thè: ne offriamo anche a una famigliola che, incuriosita dal nostro arrivo, si è avvicinata ai nostri mezzi.

Attraversato un vasto pianoro e superate alcune salite giungiamo a Samsang che oltrepassiamo senza ulteriori soste (d’altro canto Samsang non offre nulla se non mostrare pochi e decrepiti tuguri).
Ci stiamo avvicinando senza troppi intoppi al lago Manasarovar e, d’un tratto, Inna pone la sua mano sul mio braccio. La guardo e vengo attraversato dalla profondità dei suoi occhi acquamarina.“Carlo, credi che troveremo una parte di redenzione compiendo questo viaggio?”
“Redenzione? E perché dovremmo redimerci?”
Inna stringe ancora di più la sua mano “Perché ognuno di noi non è a conoscenza delle conseguenze negative che le nostre azioni, i nostri gesti quotidianamente producono”.

La osservo con malcelata circospezione: “Se agisci per il bene, con tutto ciò che questo comporta, e se segui regole morali ed etiche costantemente rivitalizzate, non credo sia necessario intervenire sulla questione delle conseguenze del nostro agire”.
“La tua risposta non è particolarmente apprezzabile Carlo, forse sarà meglio tornare sul tema una volta percorso il kora del Kailash. In ogni caso, ti infastidiscono le mie preghiere serali?” “Vedi Inna, quando entriamo in tenda e ci copriamo con i sacchi a pelo provo solo un gran senso di lieve serenità. E comunque non indago, nemmeno con l’udito, sul tuo credo”.

La breve conversazione si chiude così, Inna toglie la sua mano dal mio braccio e torna a guardare davanti a sé.

Verso il tardo pomeriggio giungiamo sulle sponde del Manasarovar: il tempo è buono e nonostante inizi a imbrunire riusciamo a coglierne l’estesa e ammaliante bellezza. Un antico poema narra che le acque del lago sono come perle e berle significa cancellare i peccati di cento vite. Sulle sue sponde si ergono piccoli monasteri, meta dei devoti che decidono di affrontarne il kora, un percorso di circa 90 chilometri. Giunti nei pressi del monastero di Seralung, Tseren individua una spianata erbosa e qui piantiamo il campo.
Si è fatto buio ma non piove e non fa particolarmente freddo quindi si decide di consumare la cena all’esterno delle tende. Rohit, aiutato dal fido Narayan, ne inizia la preparazione. Tseren accende un piccolo fuoco e Hari, con una piccola torcia stretta tra i denti, controlla minuziosamente i motori dei due mezzi. Inna è momentaneamente scomparsa; sto imparando a conoscerla, a quest’ora si pone in una condizione di profondo raccoglimento spirituale ed è cosa che non prevede spettatore alcuno.

Consumata la cena ci attardiamo un poco a conversare poi, quando l’aria inizia a farsi più pungente, entriamo nelle tende. Inna accende una microscopica candela votiva e inizia a pregare; dalla tenda vicina sento le nostre quattro guide che parlano lentamente in lingua nepali, ogni tanto una risata, sommessa. Qualsiasi sia l’oggetto della loro conversazione è piacevole ascoltarne il suono, quasi una delicata litania. Dallo zaino recupero il rubino che mi ha donato Kai a Kathmandu: è la prima volta che lo faccio da quando siamo partiti. Lo guardo con particolare attenzione e con le dita sento le piccole asperità che percorrono il cristallo incastonato nella roccia scura; la sensazione tattile si traduce immediatamente in una sequenza di immagini che mi pervadono e che, per un attimo, mi proiettano in una dimensione primigenia.

Ripongo il rubino e mi accingo a leggere alcune pagine del “Grande Sertao” di Guimaraes Rosa. Il sonno non tarda ad arrivare e Inna, dopo avermi augurato il meglio per la notte, si pone su un fianco e inizia a dormire: sono attraversato da un profondo senso di rilassatezza e non tardo a seguirla.

Al risveglio usciamo prontamente dalle tende e rimaniamo quasi abbacinati dallo spettacolo che ci si pone davanti: la mattina è luminosissima e il lago Manasarovar è quanto di più spettacolare e affascinate si possa aver la fortuna di osservare. I nostri quattro compagni stanno già preparando la colazione che consumiamo con calma scambiandoci commenti sul luogo ove siamo. Tseren, in passato, ha condotto un piccolo gruppo lungo tutto il kora del lago e ci rende partecipi di alcuni suoi ancor vividi ricordi.
Inna, rivolgendosi a lui e a Rohit, chiede di poter affrontare almeno un tratto del percorso. In teoria dovremmo dirigerci direttamente a Darchen ma è ancora presto, il tempo è buono e comunque la partenza per il Kailash è prevista per domani.

Quindi smontiamo il campo e mentre Narayan e Hari si dirigono verso i mezzi dove ci aspetteranno, noi quattro ci incamminiamo verso la sponda del lago.
Iniziamo il percorso in senso orario come se il lago fosse una immensa ruota di preghiera.
Guardo Inna: si è appena scompigliata i lunghi capelli e con passo veloce precede tutti noi.
Percorsi alcuni chilometri Rohit, che è rimasto leggermente attardato, ci chiama e ci indica che da nord-est stanno arrivando velocemente dense ed estese formazioni di nuvole scure e minacciose. Sostiamo un attimo, ognuno di noi ha lo sguardo puntato sulle acque del lago, ognuno di noi è percorso da sensazioni probabilmente mai conosciute, profondità mai esplorate.
Iniziamo quindi a tornare sui nostri passi quando Inna mi ferma e si pone davanti a me.
“Carlo, io vorrei fermarmi qui ancora un giorno”. Noto una lacrima che le percorre il volto. “Inna sai bene che non è possibile. La nostra tabella di marcia è stata definita con molta attenzione, abbiamo ancora tanto cammino da fare e tanta strada da percorrere. Dovesse accadere qualche imprevisto saremmo fuori tempo massimo; se al rientro dovessimo arrivare al confine in ritardo rispetto alla data indicata sui visti, le autorità cinesi ce la farebbero pagare cara. Qui è davvero meraviglioso ma dobbiamo assolutamente dirigerci verso Darchen”.

Lei non mi risponde, sembra rassegnata, mi guarda e noto un’altra lacrima che scorre lungo le labbra. Le pongo un braccio sulle spalle “Dai Inna, andiamo, domani sarà un altro giorno di bellezza”.

Dopo poco meno di due ore raggiungiamo i mezzi e appena ripartiti inizia a piovere intensamente.
Poco male, siamo al coperto e la pista che porta a Darchen non è molto disagevole.
Giungiamo in paese con i fari accesi sotto l’acqua battente; Tseren sa dove condurci e in poco tempo raggiungiamo la locanda dove sosteremo per la notte. Il posto non è particolarmente invitante ma si tratta solo di poche ore. Prendiamo accordi per due stanze e per la cena, la colazione di domattina sarà a nostra cura. All’esterno alcuni piccoli gruppi di viaggiatori protetti da robusti impermeabili si confrontano sul da farsi per l’indomani: compresi Inna e io saremo al massimo una quindicina.
Consumiamo una cena frugale irrobustita, fortunatamente, da una densa zuppa preparata da Rohit. Tseren ha già provveduto a contrattare l’affitto di uno yak che lungo tutto il percorso trasporterà le tende, vivande e quanto di necessità.

Andiamo a letto presto, domani inizierà la vera fatica.

La mattina si presenta non piovosa e questo ci conforta; consumiamo un’abbondante colazione poiché oggi dovremo raggiungere una quota intorno ai 5.200/5.300 metri di altitudine dove, verosimilmente, troveremo alloggio presso qualche tenda di nomadi.
Dallo zaino recupero un paio di barrette di cioccolato e altrettante di cereali, un paio di mele, müesli e pongo tutto nell’ampia tasca esterna.
Salutiamo i due autisti che ci aspetteranno qui sino al nostro ritorno; Tseren ci indica che è ora di metterci in marcia, usciamo quindi dal paese per raggiungere l’inizio del sentiero.

Percorsi non più di quattrocento metri incontriamo un gruppo di cinque viaggiatori (li avevo notati la sera precedente): uno di loro è in evidente difficoltà. Ci fermiamo a informarci per capire se possiamo essere d’aiuto. Sono austriaci, ci dicono, e il loro compagno non sta decisamente bene. Tseren si avvicina, guarda l’uomo e gli chiede quali siano i sintomi: il soggetto è in leggero stato confusionale, ha gli occhi semi chiusi e comunque riesce a rispondere di accusare nausea profonda, respirazione accelerata, mal di testa, forti dolori alle spalle e le gambe proprio non gli reggono. Tseren mi guarda e mi dice “Devono scendere subito, mal di montagna, non va bene, c’è rischio grosso”.

Darchen è posta a più di 4.700 metri di quota e forse quest’uomo non si era mai misurato con una simile altitudine. Il cosiddetto mal di montagna, se trascurato, può essere fatale: come prima cosa si deve scendere di quota ma qui non è semplice dato che il plateau è quasi tutto sopra i 4.000 metri.

In ogni caso convinciamo il gruppo a scendere fino al paese e lì verificare la presenza di un dottore. Ci accomiatiamo e riprendiamo la marcia ognuno con il suo passo, l’importante è rimanere a distanza di sguardo e di voce. Stiamo salendo verso il piccolo monastero di Chuku, da lì il sentiero piega leggermente verso destra e la pendenza inizia a farsi più aspra. Sulla nostra destra s’erge maestoso il monte Kailash la cui sommità, posta a oltre 6.700 metri, è avvolta da dense nuvole bianche.
La vetta del Kailash, montagna sacra per Indù, buddhisti, giainisti e seguaci del credo Bön (una sorta di animismo) è tutt’oggi inviolata (e speriamo lo rimanga). A sinistra un alto spallone roccioso presenta grossi ed evidenti fori che ne segnano il fronte.

Tseren ci spiega che oggi come un tempo i pellegrini che si trovano ad essere investiti da improvvise e violente tempeste si rifugiano all’interno di piccole caverne il cui accesso è rappresentato proprio da quei fori.
Guardo Inna che sembra essere particolarmente attratta da quanto appena detto.

“Inna non attardarti” le dico “non starmi troppo distante”.

Improvvisamente sento di essere diventato particolarmente protettivo nei suoi confronti, forse a causa del suo sguardo sognante o forse solo perché qui sono così e non c’è null’altro da chiedersi.

Procedo di altri duecento metri, mi volto e non la scorgo più…
Inizio a gridare “Inna! Inna dove sei?” Alcuni pellegrini superandomi mi guardano sorpresi… Chiedo a loro se più in basso hanno visto una donna con i capelli lunghi e biondi. Mi fanno cenno di no e proseguono il loro cammino.
Ridiscendo velocemente di un centinaio di metri e riprendo a chiamarla e a urlare, scruto in ogni dove ma nulla. Nel frattempo noto che Tseren (che ha affidato lo yak ad un’altra guida incontrata lungo il sentiero) e Rohit mi hanno già raggiunto e nel dichiarare a loro che sono abbastanza preoccupato sottopongo l’ipotesi di rinunciare al kora per porsi alla ricerca di Inna. Tseren guarda verso i fori nella roccia che dista circa trecento metri da noi e dichiara che sicuramente la donna si è diretta là, spinta da un’indomita curiosità; probabilmente è all’interno di una grotta e non riesce a sentire i richiami (la sua intuizione risulterà vincente). La nostra guida tibetana ci invita a proseguire il cammino, penserà lui a recuperare Inna.

Rohit mi conforta “Carlo, stai tranquillo, Tseren non ha mai perso nessuno”.
Dopo un paio d’ore, in un punto di sosta dove ci stiamo rifocillando, veniamo raggiunti da Tseren e da Inna, allegra e sorridente, apparentemente per nulla stanca.
Porgo anche a lei qualcosa da mangiare e poi rompo il silenzio “Inna la prossima volta fermi qualcuno di noi e ci informi delle tue intenzioni… siamo un piccolo gruppo e dobbiamo rimanere collegati” il mio tono non è particolarmente amichevole.

“Non potevo non andare a guardare… non so se tornerò mai al Kailash e proprio non potevo rinunciarvi” lo sguardo intenso mi disarma e comunque sarebbe inutile e infantile fare polemiche. “Ok Inna” le rispondo con tono tornato amichevole “d’ora in poi rimaniamo collegati”,  le faccio una carezza e riprendiamo il cammino.

Lungo il percorso incontriamo piccoli stupa votivi fatti di semplici pietre e bandiere di preghiera e alcuni piccoli cimiteri; la salita si è fatta più impegnativa e inizio ad accusare un po’ di stanchezza.
Rohit rimane due metri dietro Inna, meglio essere prudenti; superato un ultimo tratto particolarmente erto giungiamo su di un ampio ripiano erboso ove sorgono alcune tende di nomadi: questo sarà il nostro campo per la notte.
Tseren, dopo aver messo in sicurezza lo yak, ci conduce nei pressi di una tenda un poco più grande delle altre: ne esce un uomo che gli stringe la mano, scambiano poche battute poi l’uomo ci fa cenno di seguirlo all’interno. Depositiamo gli zaini vicino a una cassapanca riccamente decorata: le pareti interne sono quasi integralmente rivestite da coloratissimi teli votivi; al centro c’è una stufa rudimentale che funziona con panetti di sterco diseccato misto a erbe aromatiche. L’aroma che si diffonde all’interno del piccolo ambiente è decisamente gradevole così come quello che si sprigiona dalle tazze colme di un thè molto denso che ci viene prontamente offerto.

L’uomo che ci ospita non è solo, ha con sé anche la sua famiglia: una giovane moglie sorridente, un ragazzo sui dodici anni e due figli più piccoli.
La moglie sta già attendendo alla preparazione della cena, Rohit le porge alcune cose tratte dallo zaino delle vivande mentre Tseren parla fittamente con il nostro ospite.
Esco dalla tenda e scruto in alto verso la vetta del Kailash, ancora avvolta dalle nubi. Inna è dietro di me “Sai Carlo, erano almeno dieci anni che pensavo a questo viaggio, l’ho immaginato, l’ho sognato più e più volte. E tu?”
“L’idea di venire qui mi è nata l’anno scorso quando sono andato a Lhasa. Alloggiavo nel quartiere tibetano: una sera mi trovavo a cena con due ragazzi danesi che pur non essendoci mai stati me ne parlarono con tale entusiasmo che ne fui completamente coinvolto.”
Nelle poche tende vicine alle nostre fervono i preparativi per la cena; scorgiamo un piccolo gruppo di viaggiatori che abbiamo conosciuto lungo il percorso: provengono da Monaco di Baviera e dopo il kora del Kailash rientreranno in Nepal per recarsi a Pokara nella zona occidentale del Paese e quindi prendere la via per il kora dell’Annapurna.
Hanno molto tempo a loro disposizione e nei loro confronti provo un po’ di sana invidia.

Ceniamo e poi iniziamo i preparativi per la notte: la stufa viene adeguatamente caricata e, mentre stendiamo i sacchi a pelo, ci vengono offerte anche due pesanti coperte di lana di yak.
Il sonno sta per arrivare e mi sento di esprimere una raccomandazione alla mia compagna di viaggio. “Inna, domani sarà abbastanza dura, mi raccomando”.
“Non ti preoccupare, mi sento bene, andrà tutto bene”.
La mattina, al risveglio, provo la sensazione d’essermi appena addormentato. A parte Inna, che dorme ancora profondamente, sono già tutti in piedi e tutti si muovono con estrema circospezione per non disturbare chi ancora non si è risvegliato.
Quando la mia compagna di viaggio ci raggiunge iniziamo a consumare un’abbondante colazione: nuovamente pongo nella tasca esterna del mio zaino alcuni prodotti di prima necessità.

Tseren risolve il pagamento per l’ospitalità offertaci e, dopo brevi saluti, partiamo alla volta del passo di Drom-La a 5.750 metri di quota: il Kailash per un breve istante mostra la sua vetta, contemporaneamente bellissima e misteriosa, libera dalle nuvole.
Il sentiero si presenta subito aspro e inizio a sentire un leggero deficit d’ossigenazione; superato un piccolo cimitero noto che Inna si attarda, cammina molto lentamente, è in evidente difficoltà.

L’irripetibile incanto

Con Rohit raggiungo Inna “Inna come va? Tutto bene? Dai, fermiamoci un attimo”.
“Tutto bene, mi sento un po’ stanca e stamani le gambe non girano”.

Mi tolgo lo zaino dalle spalle e invito la mia compagna a fare altrettanto. Le porgo una barretta energetica e poi travaso una parte del contenuto del suo zaino nel mio, cerco insomma di alleggerirlo il più possibile.
“Carlo vai avanti, io proseguo con lei. Ci si vede al passo” è Rohit che stabilisce come muoversi, è uomo d’esperienza, quindi nulla da discutere.

Inizio nuovamente ad incedere, gli ultimi centocinquanta metri di dislivello sono davvero impegnativi: nevica, il freddo è intenso. Estraggo i guanti e osservo verso il basso la progressione di Inna e Rohit è lenta ma, fortunatamente, costante. Un piccolo cane, arrivato da non so dove, mi si affianca e mi guarda; lo accarezzo, ha un muso simpatico e sembra cercar qualcosa, così gli offro una fetta di mela che ingurgita senza quasi masticare. Questa è fame piccolo.

Finalmente, non senza qualche fatica, giungo al Drom, dove sorge un tempio in pietra avvolto da innumerevoli fila di bandiere di preghiera. Al passo ci sono altri tre viaggiatori e alcuni tibetani in pellegrinaggio; mi aggiro e osservo ogni cosa, ogni movimento; il cane continua a seguirmi, poi gira il musetto e corre verso il punto di arrivo del sentiero dove stanno sopraggiungendo Inna e Rohit.

Inna mi abbraccia con forza ed intensità.

“Ce l’ho fatta Carlo, ce l’ho fatta.”

Si toglie lo zaino, estrae alcune bandiere di preghiera che, dopo essersi inginocchiata, posa seguendo uno schema ben preciso.
Rohit mi si avvicina “Ora inizio la discesa, devo raggiungere Tseren per preparare il campo. Tra non molto inizierà a piovere, non attardatevi troppo. Inna è molto stanca e la discesa è lunga, la prima parte anche impegnativa. State sempre molto vicini, massimo tre metri di distanza, è davvero molto stanca. Ci vediamo al campo”.
Guardo Rohit allontanarsi mentre Inna prosegue i suoi rituali pregando con voce sommessa.
Attendo ancora qualche minuto poi mi avvicino a lei.
“Inna, mi spiace, ma dobbiamo proprio andare. La strada è lunga e tra un po’ inizierà a piovere.”

Il cane che non mi aveva mai più lasciato, scodinzola.

La mia compagna volge il suo volto verso di me e noto che sta piangendo: immagino siano lacrime di gioia. La sua espressione emana gratitudine verso l’intensità che la sta avvolgendo. Si alza faticosamente.
“Possiamo andare Carlo” mi dice. Il primo tratto di discesa, completamente coperto dalla neve, è una stretta traccia rocciosa che si snoda attraverso una serie di piccoli balzi e canalini inclinati: bisogna porre la massima attenzione e aver gambe salde.
Sono un metro davanti a Inna, la sento ansimare, ogni tanto le chiedo se tutto va bene e lei risponde sempre in modo affermativo. Il nostro incedere è lento, Inna è incerta nella sua progressione e il suo sguardo sembra aver perso la luminosità di pochi minuti prima. Superiamo finalmente il tratto più ostico: ora davanti a noi si apre una ruvida vallata, attraversata sulla sinistra da un torrente.

Ci fermiamo per qualche attimo e pur sapendo ch’è un atto inutile provo a guardare verso il basso cercando di individuare Tseren e Rohit.
Riprendiamo la discesa e ad un tratto dietro di me non sento più il respiro di Inna. Mi volto e la vedo seduta, il capo tra le mani, a una quindicina di metri da me, il cane accucciato al suo fianco.

Mi avvicino “Che c’è Inna, sei molto stanca?”
“Non sono stanca, sono sfinita, non riesco più ad andare avanti. Io voglio morire qui. Ho fatto quello che volevo e dovevo fare, ora posso morire.”

“Inna non dire assurdità, hai due figli a casa che ti aspettano. Sei stanca, d’accordo ma bisogna andare avanti, non possiamo fermarci qui”; percepisco di non essere per nulla convincente.
“Io non vengo più giù, non posso, muoio qui.”

Il momento è molto delicato, ho già vissuto in passato una situazione simile ma allora non eravamo a quote così alte e non minacciava pioggia.
“Inna tra un po’ pioverà e diventerà tutto più complicato. Facciamo una sosta di cinque minuti e nel mentre mangi questi.” Le porgo una barretta di cioccolato, una energizzante e le taglio una mela a fette.
“Non mangio nulla, non ho fame. Io sto qui.”
“Inna non mi interessa se hai fame o no, tu mangi tutto questo e vieni giù con me. Perché ti piaccia o meno noi arriveremo al campo” il tono della mia voce si è fatto brusco e ruvido.
La vedo che inizia a mordere il cioccolato e poi un paio di fette di mela. Le prendo lo zaino che mi pongo sul davanti, lei si alza a fatica e di nuovo la invito a mangiare ancora qualcosa. Un’altra fetta di mela, un morso alla barretta. Col capo mi fa cenno di sì, possiamo proseguire.
Le prime gocce d’acqua: dovremmo affrettarci ma con Inna in queste condizioni è impossibile. Stando a quanto mi ha detto Tseren qualche ora fa, rispetto alla nostra attuale posizione il campo è ancora molto distante. Iniziamo di nuovo a procedere ma di nuovo Inna si ferma “Carlo, scusa, ma io non ce la faccio, io muoio qui” Il suo sguardo è completamente spento.
“Ancora con questa storia del morire? Mangia ancora qualcosa e tra qualche minuto ne sentirai i benefici. Ti sei accorta che comincia a piovere? Dobbiamo andare.”
“No Carlo, io non vengo, magari scendo domattina, con calma.” Stato confusionale!
“Inna guardami” le dico gentilmente.
Lei alza il volto segnato dalla stanchezza ed io, improvvisamente, le do un ceffone. Il piccolo cane mi abbaia contro, percepisce il pericolo, però ha scelto lei.
“Inna adesso noi scendiamo, io sono con te e insieme arriviamo alla tenda. Ti è chiaro?”
Una scossa elettrica, lo sguardo della donna si riaccende, mi guarda sorpresa ed inizia nuovamente a mangiare quanto le avevo dato. Preparo un’altra mela. Forse è andata bene.
Inizia a scrosciare acqua, prendo Inna per mano e nuovamente iniziamo a camminare: siamo molto lenti ma l’azione è continua. Nessuno dei due parla. Ad un tratto, dopo quasi due ore, compare Rohit con l’espressione del volto molto preoccupata.

“Il campo è vicino Signora Inna, molto vicino.”

Lei gli sorride, capisco che il peggio è definitivamente passato.

Giunti alle tende, fradici ma decisamente sollevati, lascio che Inna entri nella nostra per togliersi i vestiti zuppi e indossarne asciutti. Nel frattempo racconto a Tseren e Rohit quanto accaduto: un’abbondante zuppa calda è già quasi pronta e poi carne in scatola e legumi in abbondanza, biscotti e frutta. Inna entra nella tenda e Rohit le porge una coperta: non è esattamente rimessa a nuovo ma è asciutta e al caldo.

Mangiamo in silenzio, fuori è buio e continua a piovere copiosamente. Anche il piccolo cane merita una ciotola di cibo, sembra aver fatto subito amicizia con Rohit che con cura e gentilezza stende per lui una piccola coperta per la notte.
Inna, che nonostante l’estrema stanchezza è riuscita a mangiare tutto quanto preparato, si accommiata velocemente e va a stendersi sotto il sacco a pelo. Mi fermo ancora un poco a chiacchierare e a bere un paio di tazze di caffè liofilizzato. Fumo anche una sigaretta, una delle prime da quando siamo partiti. Poi in tenda: guardo Inna, sta dormendo profondamente e questo è bene.

Al mio risveglio lei è già fuori dalla tenda, la raggiungo.

La giornata è buona. “Come ti senti Inna? Come stai?”
“Sono un po’ stanca ma la cena di ieri sera e la dormita di questa notte mi hanno rigenerata.”

Il suo sguardo è tornato ad essere luccicante così come il suo sorriso.

Le sfioro i capelli “Sono contento Inna. Mi spiace per il ceffone ma non avevo altra scelta.” Lei mi regala una carezza e si allontana per le preghiere del mattino.

Smontato il campo e caricato il dorso dello yak, ci mettiamo in movimento: davanti a noi la valle si apre a si addolcisce; alcuni nomadi accompagnati dai loro animali si accodano alla nostra piccola carovana.
In poche ore e senza alcun intoppo giungiamo a Darchen e presso una piazzola sterrata, proprio a ridosso della locanda ove abbiamo dormito, avviene la riconsegna dello yak al suo proprietario. Il piccolo cane ha capito, siamo in partenza: ci saluta annusandoci e abbaiando festosamente, corre all’interno del villaggio e scompare.
Narayan e Hari sono sul posto: carichiamo i bagagli sui mezzi e ci apprestiamo a percorrere un paio d’ore sulle piste prima di fissare il campo per la notte.

Narayan, in base alle informazioni ricevute a Darchen, decide di percorrere una pista leggermente più a sud, più solida e meno invasa dalle acque.
Il rientro verso Zhangmu è un po’ malinconico. Di tanto in tanto chiediamo agli autisti di fermare i mezzi e poter nuovamente lanciare i nostri sguardi verso l’Hymalaya.
Giunti al confine espletiamo le operazioni di rito e riattraversiamo il Ponte dell’Amicizia.

Tseren ci lascia, deve organizzare il prossimo viaggio. È stata un’ottima guida.

Percorriamo a ritroso la strada che da Kathmandu ci aveva condotto sin qui: il primo tratto è stato duramente danneggiato dalle piogge monsoniche e in un paio di casi, per salvaguardare la nostra incolumità, Inna e io veniamo invitati a scendere dalla jeep. I due autisti riescono a compiere manovre davvero sorprendenti per riuscire a superare tratti di strada quasi completamente franati.

Raggiungiamo la valle e in un’ora e mezza siamo di nuovo in città, presso l’agenzia di Kapil che ci vede scendere dai mezzi: esce di corsa dal piccolo ingresso e ci abbraccia tutti.

Poi, quasi come un rito, tre giri di coppe di vino nepalese.

È giunto il momento del commiato: non avrei potuto sperare in un gruppo di persone migliore di questo e sono davvero commosso quando con un ultimo abbraccio saluto tutti definitivamente. Prendo il mio zaino e vedo Inna che guarda verso nord, quasi volesse cogliere ancora qualche attimo di estrema bellezza.

Poi si avvicina.

“Tu che farai Carlo?”
“Ho ancora due o tre giorni qui, esattamente non so.”
“Questa sera sei mio ospite a cena. Mi hai salvato la vita.”
“Ho fatto solo quello che andava fatto.”
“Come credi, in ogni caso questa sera ci aspetta una cena e abbondante vino nepalese. E poi c’è il tema della redenzione. Quello va affrontato.”

E sorridendomi si allontana all’interno del quartiere di Thamel.

Domani riprenderò a vagabondare tra Kathmandu e dintorni, questa volta guidato dall’irripetibile incanto che ho vissuto.

Nota: ho avuto la fortuna di venire in contatto con gli scritti e la profonda spiritualità di Gary Snyder grazie agli studi compiuti dalla Dott.ssa Silvia Leprai che ha conosciuto direttamente l’autore americano e ha quindi successivamente prodotto un’avvincente ed interessantissima tesi di laurea.

Testo e foto di Carlo Polvara