“In the merry month of June from me home I started” così inizia The rocky road to Dublin, una canzone popolare irlandese, composta a fine ‘800 e ancora oggi tra le più eseguite del loro repertorio tradizionale.
Partire e lasciare casa, in questo giugno tormentato da dubbi e incertezze, è l’unico pensiero chiaro che abita la mia mente.
Nei periodi, come questo, in cui viaggiare rimane solo un ricordo, la mia testa mi spinge a pensare più intensamente a tutti i viaggi che ancora non ho fatto. La lista di destinazioni si fa lunga e tortuosa, ma i pensieri rimangono rarefatti come l’aria ad alta quota e i vari viaggi ideali si dispongono come siepi di un labirinto senza fine.
In quel momento, è come se il mio pensiero si rendesse conto di aver bisogno di qualcosa di più reale a cui aggrapparsi, per sostenere il peso di un intero viaggio che ancora non è stato fatto. Così, saltando tra un viaggio backpacking in Uzbekistan e un trekking in Islanda, mi ritrovo a pensare a luoghi che ho già visto, ma dove vorrei ritornare e che vorrei esplorare ancora e ancora.
Logicamente penso a Stati Uniti e Spagna, due luoghi che in passato sono stati casa mia e che, in qualche modo e in maniera diversa, lo sono ancora.
Ma poi il mio pensiero, come in un libro di Joyce, prende una svolta inaspettata e viaggia oltre il canale della manica e il Mare Irlandese, per riportarmi sulle aspre sponde di una piccola isola color dello smeraldo, dove la terra finisce con alte scogliere e la birra è nera come il carbone.
Ognuno di noi ha un posto al quale, per qualche motivo non sempre chiaro, si è legato indissolubilmente; per me questo posto è l’Irlanda.
L’ho conosciuta, per la prima volta, in un giorno di pioggia. Ero ancora piccolo e non avevo ancora imparato ad apprezzare il valore dei viaggi, ma, da quel momento, mi ha periodicamente richiamato con il suo canto da sirena.
È iniziata così, quasi per caso, la mia rocky road to Dublin.
“One two three four five / Hunt the Hare and turn her down the rocky road / And all the way to Dublin, Whack fol lol le rah!”.
E così, mi ritrovo, come Leopold Bloom, a passeggiare per le strade di Dublino, cercando uno Stephen Dedalus che non so neanche se esiste. Cammino lungo le sponde del fiume, tra i pub dai quali escono risate e musica celtica.
Attraverso il campus del Trinity College e arrivo al porto, ma non mi fermo. Continuo a camminare e presto giugno sulle scogliere di Howth; c’è un po’ di nebbia, ma posso vedere il faro in lontananza.
Non sono soddisfatto quindi rimetto lo zaino in spalla e decido di cambiare aria. Con un pullman, che corre veloce tra le minuscole stradina della campagna irlandese, arrivo fino a Killarney. Lì rincomincio a camminare, lungo il Ring of Kerry, tra le verdi colline, divise da muretti a secco, arrivo fino al mare. Quando il mare e la terra si incontrano, in Irlanda, lo fanno piuttosto bruscamente, senza mezzi termini, cadendo lungo altissime scogliere.
Mi dirigo a nord, sempre seguendo la mia personalissima rocky road. Trovo un pub su una scogliera, piccolo ma accogliente, come ogni vero pub irlandese. Dentro mi accolgono come se fossi un abitante del paesello e tra una Guinness e un Whiskey in the Jar è già il giorno seguente e io sono di nuovo in cammino.
Arrivo a Doolin e lì mi ricordo della prima volta in cui ero arrivato in questo remoto punto dell’isola. I ricordi prendono vita e ritrovo quindi Davide che stava viaggiando con me e che, sorseggiando una pinta di Guinness mi dice “vedi quelle isole all’orizzonte? Sono le Aran Islands, lì ci sono i resti degli insediamenti delle più antiche tribù celtiche che vivevano in Irlanda”.
Mentre mi racconta di queste isole mi accorgo di essere già sul traghetto e subito dopo su una bici, sfrecciando tra i minuscoli sentieri di quest’isola rocciosa. Penso che è da tanto che voglio tornare sulle isole Aran, è da tanto che voglio andare in bici su quei sentieri. Arriviamo al sito archeologico, posto sul bordo di una scogliera a strapiombo sull’oceano, sembra di essere sulla prua di una nave. Rimaniamo lì, con le gambe a penzoloni nel vuoto, a guardare l’immensità dell’oceano.
Inizia a piovere, strano che non l’abbia fatto finora in realtà! Riprendo il traghetto verso terraferma e mi fermo a dormire in tenda a Doolin, con il ticchettio della pioggia a cullarmi durante la notte. Poi riparto, direzione nord, passo per Galway senza fermarmi, voglio vedere il Connemara.
“Cut a stout blackthorn to banish ghosts and goblins/A brand new pair of brogues, rattlin’ o’er the bogs”.
Mi perdo nelle brughiere del Connemara, tra nebbia e acquitrini, temendo di incontrare folletti e goblin. Ritrovo la mia rocky road e continuo a viaggiare verso nord fino ad arrivare nel Donegal e sulle coste più settentrionali dell’isola. Qui il vento accarezza l’erba e schiaffeggia le onde. Seguo la linea costiera e arrivo a un confine, un confine?
Ma è un’isola così piccola… che differenze enormi ci saranno per dover dividere in due un popolo? Continuo a camminare, mentre le macchine iniziano a tenere la sinistra e l’accento delle persone si fa sempre più incomprensibile.
Arrivo a Belfast, cammino lungo le strade, costeggiando i tanti murales di protesta, di Bobby Sands, Sunday Bloody Sunday… dovrei parlarne più a fondo, ma d’altronde questo è solo un sogno, un viaggio del mio pensiero, un flusso di coscienza tra quello che mi manca di quest’isola e quello che ancora non ho visto. Senza accorgermene sono al punto di partenza, alla fine ed inizio della mia rocky road, sono a Dublino, passeggio lungo il fiume, sotto la pioggia.
Guardo l’ora, la pausa è finita. Torno a scrivere la tesi, torno con la testa sulla mia scrivania, in Italia, a Milano, in questo giugno di dubbi e incertezze, lontano, si spera per poco, dalla mia rocky road to Dublin.