Il viaggio che vorrei

È quello mai fatto, senza programmi e tabelle di marcia. Senza tempi contati e date certe per il rientro. Un viaggio alla ricerca di qualcosa di cui preoccuparsi.

Se sei senza guida né riferimenti, preoccupati. Ma se sei con una guida, allora fatti prendere dal panico.

Una vecchia amica un giorno mi disse queste parole. Non erano parole sue e non sono ancora riuscito a scoprire chi le ha dette per la prima volta. Ma risuonano sempre fra i miei pensieri e in particolare hanno risuonato forte durante questo periodo di clausura forzata, in cui viaggiare si è potuto soltanto con l’immaginazione.

E allora, via all’immaginazione: mi auguro soltanto che il lettore voglia perdonarmi gli eccessi, gli assurdi e i paradossi.

Un viaggio in cui preoccuparsi, dunque. Potrebbe essere questa la parola chiave per riassumere il senso del viaggio che desidero e che ancora non ho fatto. Un viaggio senza riferimenti, appunto. Un viaggio che è esperienza di vita prima di tutto, non parentesi di svago tra un prima già vissuto e un dopo già pianificato.

Non le ferie, che per quanto lunghe possano essere, sono sempre tali. E come tali agiscono, ricordandomi che fra poco ritornerò a fare la stessa vita di sempre.

Felice o meno, non importa, non è questo il punto.

Il punto è proprio entrare in una logica differente, in cui il viaggio, nel momento presente, è l’unica prospettiva di vita. L’unica casa. Non esiste un ritorno, dopo. O magari esisterà, ma al momento non è previsto. Un viaggio che parta da una scatola vuota, pronta per essere riempita. Anzi, forse nemmeno la scatola vuota è presente, all’inizio.

Quindi la preoccupazione, perché del vuoto abbiamo paura tutti. Vogliamo riempirlo, vogliamo avere dei riferimenti che ci dicano qual è la strada giusta. Non c’è scampo, è inutile stare a raccontarsela con il rifiuto dei valori che la società ci propina. Puoi rifiutarli, ma non sperare di non aver bisogno di cercarne altri. Non per forza trovarli, ma cercarli.

Qual è il tempo minimo per un viaggio così? Non ne ho idea, ma ho ben chiaro in mente che dovrà essere lungo. Una settimana, un mese, sono tempi troppo brevi. Non sufficienti a spostare interiormente la percezione di dove sei e che cosa stai facendo.

In un mese non si ha il tempo di cambiare le proprie prospettive, è già tanto se si riesce ad ambientarsi nel nuovo luogo in cui ci si trova. E come si può pretendere di conoscere un luogo se a malapena ci si è abituati?

Dimenticare la smania di conoscere, come se i luoghi fossero caselle da spuntare, come se la storia e le tradizioni fossero medaglie da appendersi al collo. Tornare alle fondamenta del nostro essere uomini: organizzarsi la vita soltanto fino alla sopravvivenza.

Del cibo e un posto dove riposare. Poi, l’ignoto.

Capiti quel che capiti, ma non come una sfida a chi ha la mente più aperta, da raccontare poi, una volta rientrati. Capiti quel che capiti perché è la vita che ti scorre addosso. E il viaggio ideale è quello che non è più vissuto come tale.

Perché non ho più la fretta di accumulare. Oggi si ha sempre poco tempo, anche quando si è in viaggio. Quindi via al tripudio dell’ottimizzazione e dell’efficientismo e via a una tabella di marcia imbattibile con cui illudersi di scoprire un paese intero in due settimane.

E si badi bene che questo lo sappiamo anche noi: quando uno straniero ci dice che verrà in viaggio in Italia per due settimane e si farà un giro da Nord a Sud, noi pensiamo immediatamente poveretto, non capirà niente, ci sono troppe cose da vedere.

Insomma, riscoprire la calma, unita all’entusiasmo genuino di inserirsi in una vita. Non di gonfiarsi di immagini e informazioni che il più delle volte vengono accantonati in un remoto angolo del nostro cervello non appena termina l’esperienza.

Sempre in quest’ottica, penso sia fondamentale lavorare nel luogo in cui si viaggia. Innanzitutto per potersi garantire la sopravvivenza di cui sopra, ma anche per potersi aprire un’ulteriore porta verso la conoscenza – reale e non di facciata – del luogo in cui ci si trova.

Ancora una volta, viaggiare-non-viaggiare. Se si tratta di vita c’è da mantenersi, prima di tutto. E poi, lavorare significa entrare in comunicazione con i locali, probabilmente conoscendone diversi individui di classi sociali distinte. Significa conoscere una serie di principi e abitudini che caratterizzano quel luogo.

Significa probabilmente darsi una spinta enorme per imparare quella lingua. D’altronde, come si può pretendere di capire un paese senza conoscerne uno degli specchi più significativi, ovvero la lingua?

Capisco bene che uno scenario di questo tipo sia incompatibile con la struttura su cui abbiamo organizzato la nostra società. Ma se sognare non costa nulla, allora tutto è possibile.

A scanso di equivoci, e onde evitare di essere accusato di ipocrisia, tengo a sottolineare che tutti, e dico tutti, i viaggi che ho fatto nella mia vita sono lungi dal rispettare le caratteristiche che ho provato a elencare. D’altro canto però, sento che per quanto aperti si possa essere, per quanto curiosi si possa essere, per quanto innamorati si possa essere, manca sempre un pezzo.

Il viaggio che vorrei, per dirlo in una frase, sarebbe quello che mi accompagna alla scoperta di una nuova guida. Facendomi passare attraverso lo smarrimento e lo sgomento che questo provoca, e infine riportandomi alla luce. E su questo, forse Dante aveva già detto tutto quello che bisognava dire.