Uno dei padri del concetto di tempo nella storia della nostra cultura è Sir Isaac Newton che in uno dei suoi trattati ci spiega che: “il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente”, questo vuol dire che da sempre concepiamo il tempo come entità a sé stante, che non possiamo influenzare ne plasmare. Ma ne siamo proprio sicuri?
Chipata, Zambia
La prima volta che ho visto un tempo diverso dal mio ero in Zambia, a Chipata. Stavamo aspettando che arrivassero alcuni abitanti di un villaggio per parlare di un progetto a cui si stavano lavorando e, dopo circa un’ora di attesa, il collaboratore della nostra ONG ci dice che sarebbero arrivati solo nel pomeriggio. In questi casi è grande la differenza culturale tra un europeo e un africano: il primo in una situazione del genere inizierebbe a guardare nervosamente il suo orologio, sentendosi irritato per aver “perso” tempo; il secondo, invece, molto probabilmente avrebbe semplicemente trovato altro da fare nell’attesa o, ancora più facilmente, si sarebbe seduto sotto uno dei tanti alberi della savana e avrebbe aspettato.
“Voi europei siete bravissimi a calcolare il tempo, ma non avete mai imparato a viverlo” disse più tardi John, uno dei collaboratori autoctoni dell’organizzazione.
Furono quelle parole che per la prima volta mi fecero riflettere su cosa significasse davvero vivere il tempo, piuttosto che sottostare e obbedire ad esso e, soprattutto come poteva un europeo, costretto dalle nostre rigide convenzioni sociali, imparare a farlo?
Come sempre formulare delle domande è molto più facile che trovare delle risposte, ma in questo caso penso di essere riuscito a individuare la mia piccola risposta personale. Quand’è che, nella mia vita, il tempo sembra assumere dei connotati differenti? Quando ha più capacità di dilatarsi o contrarsi? Quando effettivamente ogni istante assume un significato diverso per ogni azione (o non azione) che compio?
Per me il momento in cui tutto ciò si manifesta prepotentemente è quando viaggio.
Sarà forse qualcosa di intrinseco al movimento ma il viaggiare altera la mia concezione del tempo come nessun’altra attività.
Yorkshire, Inghilterra
Qualche anno fa ero partito da solo per la campagna inglese e, girovagando per lo Yorkshire, mi ero ritrovato in un piccolo borgo di pescatori che si adagiava placido su una scogliera a picco sul mare. Camminando lungo uno dei sentieri che conducevano al paese, trovai una panchina rivolta verso il mare, mi sedetti e stetti lì, a fissare la spuma delle onde che si infrangevano contro la parete di roccia e a lasciarmi accarezzare il volto dalla brezza marina tipica delle mattinate d’inverno. Ora non so dire quanto tempo abbia passato su quella panchina, ma sicuramente abbastanza perché qualcuno possa pensare che sia stata una “perdita” di tempo. Eppure, ancora oggi, potrei definire quel lunghissimo momento in tanti modi, ma mai come uno spreco.
In questi momenti è difficile tenere il conto di minuti ed ore. Come quando sei su una tavola da surf, sulla costa portoghese, all’alba, quando flebili raggi di sole iniziano a fendere la pigra nebbia mattutina e tu sei in acqua, in un’attesa quasi spirituale della prima onda. È un’attesa che può durare anche ore, ma, anche qui, il tempo di Sir Newton e il tuo, non potrebbero essere più lontani.
E voi direte che questi sono solo momenti, situazioni in cui, come un lapsus freudiano, non ci rendiamo conto del tempo che passa per poi tornare a guardarlo e calcolarlo sul nostro orologio o sul nostro smart-phone.
Ma è proprio il viaggio che dilata e contrae il tempo a suo piacimento. Innanzitutto perché dura sempre più di quello che una persona poca attenta potrebbe pensare. Come dice Kapuściński nel suo libro In viaggio con Erodoto, infatti, “un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati”.
Il viaggio è quindi intrinsecamente più lungo di quello che ci si potrebbe immaginare. Dal momento in cui senti parlare di un luogo, in cui inizi a leggere e ad informarti e velocemente si forma l’idea stessa dell’esperienza che vorresti vivere, fino al momento in cui sei sul volo di ritorno e, come fossi in un film, ripercorri tutto quello che hai vissuto in quel lasso di tempo incalcolabile che, solo apparentemente, si sta concludendo.
Capo Nord, Norvegia
Lo scorso agosto, mentre ero in viaggio per Capo Nord, mi sono infine reso conto di come il viaggio sia esso stesso una piccola vita, dentro la vita che già viviamo. Mentre ti sposti, magari, come ho fatto io con i miei compagni d’avventura, in macchina, adotti, sempre di più, una routine, un’abitudine e dei ritmi che non necessariamente sono quelli che hai quando sei a casa. Orari, appuntamenti, obblighi, tutto diventa secondario perché quello che succede nel viaggio e le esperienze che vivi assumono un’importanza maggiore, si spostano in primo piano.
Così ho scoperto che per quanto Sir Newton avesse ragione, la nostra percezione del tempo può esulare da queste leggi fisiche. Il tempo non deve essere necessariamente l’artefice delle nostre vite, dei nostri ritardi e dei nostri ritmi, ma può diventare la preposizione subordinata alla principale che è la nostra vita. Basta imparare, almeno nei momenti di viaggio, in cui ci sentiamo forse più liberi, a vivere il momento senza guardare il nostro orologio, senza pensare a qualcosa che fai (o che non fai) come uno spreco, basta imparare a prendersi tempo per viaggiare.