Manlio Jacobelli, quarantasette anni, giornalista di una piccola testata bergamasca, da almeno cinque faceva parte della seconda categoria.
Non c’era un vero e proprio perché: un giorno si era arrabbiato con qualcuno, non si sa bene con chi né se fosse un qualcuno vero, in carne ed ossa, o uno di quei qualcuno generici con cui è bello arrabbiarsi per non fare i conti con il proprio senso di colpa, e aveva guardato il rotolo. Penzolava miserabilmente un solo foglio, come d’autunno sugli alberi, e con un impeto di ira, orgoglio, eroismo metropolitano e vanità, in quel momento Manlio decise che piuttosto si sarebbe fatto un bidet particolarmente disgustoso ma che no, giammai, non avrebbe più cambiato il rotolo di carta igienica in quella casa di impertinenti. Non aveva la minima idea che un narratore spione stesse osservando i suoi pensieri.
«Mai più mi abbasserò a tanto. Perché devo sempre essere io? A me chi lo cambia il rotolo?». Questo pensava, e in mente aveva una figura molto confusa, una sorta di sintesi della moglie, Graziella, trentanove anni da almeno sei anni, e dei due figli Alfonso ed Emilio, e la odiava nel peggior modo in cui si possono odiare il peggiore dei nemici o il migliore degli amici.
Potrebbe anche sembrare normale, a quarantasette anni, non voler più cambiare i rotoli di carta igienica, non lo era però, forse, provare l’intenso piacere che Manlio iniziò a sentire nei giorni successivi, quando rispondeva alle ovattate imprecazioni della moglie dall’interno del bagno: «Manlio ma dai! E io con che cosa mi pulisco adesso?». Sghignazzava e tra sé mormorava: «Con chèla lèngua de merda che ta sa ritroèt».
Si badi, Manlio amava la Lella. L’amava di quell’amore usurato ma dolce, burbero ma profondo, scontroso ma totale, allo stesso modo in cui si ama un genitore, nell’unico modo in cui, forse, è possibile amare per tutta la vita qualcuno che si è voluto ardentemente, dopo averlo ottenuto. Non ce l’aveva con lei, lei era solo la pioggia nel momento in cui si dice potrebbe andare peggio: pensa se piovesse.
La verità è che Manlio era diventato cattivo. Pigro, inconcludente, bellicoso, irritato, irritante, scontroso, frustrato. E aveva mal di fegato, e sotto sotto ne godeva. Quel male lo faceva sentire piacevolmente vittima di qualcosa, ed essere vittime di qualcosa, si sa, è condizione necessaria per essere qualcuno ai giorni nostri. Quel che però era peggio – osservazione ottenuta interpretando i borbottii che accompagnavano le sue sfilate in via Tasso o sul Sentierone – è che dal giorno della conversione alla seconda categoria la bocca gli si era allargata in un ghigno. Come se si sentisse in qualche modo in credito con un mondo che nemmeno per sbaglio lo risarciva di un centesimo.
Non aveva amici, Manlio. Semmai aveva presenze abituali e costanti che intrecciavano, suo malgrado, le trame delle loro vite con la sua, per giunta tutta gente con un’espressione fastidiosamente soddisfatta e serena che lo faceva andare su di giri. Tutti i giorni tornava a casa dalla Lella e commentava rabbiosamente la faccia tosta con cui questo esibiva la ventiquattr’ore («sicuramente piena delle stupidate che dice»), quello si faceva bello con le ragazze che intervistava («se fossi sua moglie non so cosa gli farei»), quest’altro ancora mangiava tutto il buffet dell’aperitivo del convegno senza minimo ritegno né pudore («non è che se sono lì devi mangiarteli tutti»).
Aveva un commento per tutto, dal giorno della conversione, e se non c’erano motivi per cui arrabbiarsi, se li inventava lui.
E prima? Prima era un normalissimo ed entusiasta giornalista sempre alla ricerca della notizia, forse un po’ ingenuo nel ritenere importanti quotidiane scaramucce comunali, ma comunque molto meno rispetto a quando aveva iniziato. E comunque non sta scritto da nessuna parte che la relatività sia un imperativo. Si può essere al contempo minuscoli nell’universo ma non riuscire ad abbottonarsi il cappotto perché troppo stretto. Manlio si abbottonava il cappotto ma portava una sciarpa perché l’ultimo bottone faceva difetto. Pare che nel giorno in cui, all’inizio di un agosto straordinariamente afoso, aveva fatto il gran salto dalla prima alla seconda categoria, non indossasse – sbadatamente, o forse perché era agosto, ed era pure un agosto straordinariamente afoso – la sciarpa. Sta di fatto che quel giorno Manlio dava un bacio del buongiorno rapido ed entusiasta alla Lella, scendeva le scale del suo appartamento in via Tasso, non trovava la sua copia dell’Eco sullo zerbino, buttava invano l’occhio nella cassetta della posta, decideva che il corriere doveva essersi dimenticato di lui. Poi scuoteva meccanicamente la testa perché sapeva che in quei casi le persone per bene scuotono la testa e si si dirigeva verso l’edicola poco distante, cercando nelle tasche interne della giacca qualche moneta.
Manlio era un uomo dalla bellezza di gran lunga superiore a quella di un qualunque uomo reso affascinante dalla mezza età. Nessuno vi aveva detto di immaginarlo brutto. Bello e buono coincidono solo nei filosofi pigri. Non erano solo i capelli, ingrigiti ma non troppo, né l’aria sicura e baldanzosa, né la schiena straordinariamente dritta, né il portamento elegante a renderlo così bello. Non erano nemmeno gli abiti o la sigaretta masticata con l’angolo della bocca quasi a spremerne il fumo. Non solo almeno. Manlio era proprio bello, lo era sempre stato ed era difficile immaginarselo brutto, a meno che non si tratti di precipitosi giudizi di lettore. Anche a ottant’anni, chiunque lo vedeva avrebbe giurato su Dio, sarebbe stato sempre bello. Aveva gli occhi stretti, tagliati come quelli di un gatto, scuri come l’inquietudine che mettevano a chiunque li guardasse, penetranti e perversi come siringhe colme di eroina. Il naso era leggermente storto, e Dio solo sa quanto fosse fortunato ad avere un naso così, e le labbra veniva voglia di mangiarle solo a vederle. Sottili e leggermente incurvate verso il basso. Manlio consapevolmente le arricciava stringendo e ingrossando la mandibola, per essere allo stesso tempo ambiguamente apollineo e dolcemente virile. Ogni tanto tirava qualche boccata alla sigaretta inumidita dai morsi, la rimetteva in bocca e si passava una mano tra i capelli o tra la barba, quando l’aveva. Si radeva e poi aveva nostalgia di quelle zone d’ombra che la barba crea sul viso, allora la lasciava crescere fino a quando non aveva nostalgia della pelle liscia e si radeva di nuovo e avanti così, nei secoli dei secoli. Vestiva elegante ma un po’ bohème, pantaloni di stoffa, camicia coreana, giacca abbottonata solo in un punto in estate; completo sgualcito, cappotto e sciarpa di inverno; occhiali da vista rotondi nonostante avesse dieci decimi all’occhio destro e nove a quello sinistro. La gente si girava a guardarlo, e le ragazze prendevano a gomitate le amiche e spalancavano la bocca sognando perversi colloqui di lavoro, ammettendo però soltanto la bellezza a loro dire oggettiva e insindacabile di quell’uomo che però poteva essere loro padre, e che quindi potevano solo guardare con ammirazione e senza desiderio sessuale. Pensavano però, sotto sotto, che l’età è solo un numero, e che è strano dover negare una carica erotica così travolgente soltanto per questioni di carta di identità. Alla fine siamo animali, pensavano, e tante signorine animalesse scelgono i maschi più vecchi per l’accoppiamento. Sai che prole ne verrebbe fuori con un uomo così. Capitava spesso che Manlio si immaginasse descrizioni di cui lui era l’oggetto in libri immaginari (ma quali libri non lo sono?) di cui lui era il protagonista. Erano tutte più o meno come questa.
Fatto sta che quella mattina, mentre si dirigeva all’edicola, diciamo che la sua descrizione e il suo reale aspetto coincidevano solo in minima parte. Diciamo che aveva un’immagine di sé abbastanza photoshoppata. Però dai, era bellino. Di sicuro più bellino dei suoi due figli. Ma in quel caso la colpa, lui credeva, era di qualche gene sbagliato nel patrimonio della moglie. Forse Graziella era solo un caso fortunoso di uno spermatozoo particolarmente avvenente e prestante che aveva bruciato sul tempo milioni e milioni di spermatozoi più bruttini e malaticci. Che cosa affascinante la probabilità. Di certo però, se i suoi figli non erano belli come lui non poteva che essere colpa della Lella.
Ma, ricordandosi di dover essere seccato per la grave dimenticanza del corriere, Manlio si distolse da quei pensieri e si concentrò. Cercava le parole giuste per esprimere il suo disappunto all’edicolante, e magari per convincerlo a dargli la sua copia gratis.
«Buongiorno, guardi le spiego la situazione: io sono abbonato all’Eco di Bergamo, e questa mattina il corriere deve essersi accidentalmente dimenticato di passare di qui. Sono perfettamente consapevole che questo disguido non sia una sua responsabilità, ma mi chiedevo se fosse possibile avere… insomma… la mia copia gratis. O meglio, non gratis, mi capisce, l’ho già pagata quando ho fatto l’abbonamento, mi spiego?»
«La capisco, ma purtroppo non posso aiutarla, io i giornali li devo vendere sa? Non è così semplice, dovrei pagarla io se gliene lasciassi una gratis»
«No, certamente, ma le sembra giusto che io debba pagare un giornale quando sono già abbonato? É un’ingiustizia, del resto tipica del nostro tempo, in cui i corrieri abitualmente hanno dimenticanze di questo tipo. Pensi che una volta ho ordinato una pizza e ho aspettato per un’ora e mezza. Mi crede che ho dovuto comunque pagare la consegna?»
«Cose da matti, viviamo in un mondo strano, sono d’accordo con lei. Le ingiustizie sono all’ordine del giorno, ma guardi che siamo tutti, nostro malgrado, sulla stessa barca. E, mi creda, le dico queste cose con grande amarezza e dispiacere, ma non le posso proprio dare la sua copia gratis. Posso chiudere un occhio per l’inserto di questa settimana e farle pagare solo l’euro e quaranta per il quotidiano, ma capisce che se devo regalare una copia a tutti quelli che il corriere si dimentica, i miei figli non mangiano più»
«Guardi, io mi mantengo molto pacato e calmo, ma la informo che la mia pazienza ha un limite. Io credo, e lo dico perché sono un giornalista, so come funziona questo settore, che voi siate tutti d’accordo: voi edicolanti vi mettete d’accordo con i corrieri per poter vendere qualche copia in più».
L’edicolante, un uomo piuttosto grasso, paonazzo e, ebbe modo di osservare Manlio, con un pessimo gusto nei modi e nell’abbigliamento, non rispose alle accuse dello sventurato, limitandosi a borbottare qualcosa in dialetto (che Manlio conosceva solo vagamente, avendola sempre considerata una lingua rozza, poco elegante, e adatta solo agli ignoranti di cui Bergamo tra l’altro pullulava, almeno fino al giorno del grande cambiamento) e a indicare i giornali sul banco del chiosco nell’angolo dove, in piccolo, l’inchiostro nero sulla carta umida e fresca sentenziava il prezzo.
In quel momento Manlio si sentì combattuto. Da un lato era già esausto per una battaglia che, con il senno di poi, poteva oggettivamente evitare, e oltretutto sapeva di essere in ritardo. Non sapeva per cosa (era in ferie, non aveva appuntamenti quella mattina), ma sapeva di essere in ritardo. Dall’altro lato però si sentiva il paladino di una lotta contro l’ingiustizia che interessava chiunque fosse costretto a subire imbrogli e sotterfugi di quel tipo ogni giorno. Decise allora di chiuderla a modo suo, cedendo alla battaglia ma scagliando una dichiarazione di guerra che doveva lasciar presagire guai seri al rozzo edicolante in primis, a tutto il sistema della carta stampata poi.
«Va bene, non ho voglia di perdere altro tempo. D’altronde, se uno nasce con il grimaldello non può liberarsene nemmeno nella tomba. Mi dia il giornale, ma non l’inserto. Ecco il suo compenso. Sappia che in queste monete dimora, in natural sede, la sconfitta di una civiltà in cui spero ancora di poter credere, un giorno. Ma non finisce qui». Perplesso, l’edicolante capì le intenzioni di Manlio solo vedendolo allungare il pugno con gli spiccioli, e gli diede il giornale ringraziando confusamente, più per abitudine e convenzione che per effettiva gratitudine, il cliente per l’acquisto. Gli occhi da gatto di Manlio squarciarono l’uomo come una katana con i tronchi di quercia (Manlio, mentre dosava l’intensità del suo sguardo, pensò che questo paragone fosse abbastanza arguto da rendere l’idea nel miglior modo possibile), dopodiché, arrotolato e posizionato l’Eco fresco di stampa dove ogni uomo per bene dovrebbe posizionare un giornale e dove ogni francese per bene posiziona la baguette ogni mattina, si allontanò verso il teatro Donizetti e proseguì dritto imboccando Via XX Settembre, dopo averla rapidamente preferita a Città Alta per vicinanza e pigrizia una volta arrivato all’incrocio alla fine del Sentierone. In testa, un mondo; nel mondo, il disprezzo; nel disprezzo, il diritto, la giustizia, la sua giustizia e un’incredibile bisogno di farsi odiare.
La faccenda della carta igienica avvenne proprio quella sera.
Testo di Matteo Rizzi