Quello che ho capito dell’India

Ricordi, annotazioni e riflessioni, a volte amare e ironiche, in un viaggio per lavoro di pochi anni fa.

Così sono qui, in questo paese, la 55esima bandierina sul mio planisfero. Il 55esimo paese calpestato da quando, senza che nessuno l’avesse previsto, una laurea in Ingegneria Aeronautica, raramente utilizzata nella piena accezione del termine, mi ha portato a viaggiare su aerei non progettati o costruiti da me, ma sempre efficienti e che non mi hanno mai lasciato a piedi.

Sono in questo paese accompagnato da una stanchezza come quelle che ricordo nei finali di anno scolastico, distrutto dal ritmo lavorativo; questa stanchezza non mi fa apprezzare il mistero tanto decantato di questa terra a Oriente.

Un paese che potrebbe essere un intero continente, con i suoi 1,2 miliardi di abitanti (venti volte l’Italia) su una superficie di 3 milioni di km2 (dieci volte l’Italia). Nello stesso tempo una porta che si apre sull’Oriente e un cancello che si chiude sull’Occidente. Un mondo a parte, con la stessa paura che ha un adolescente di crescere troppo in fretta.

Lo scalo di Dubai serve solo come allenamento. L’aeroporto è una cattedrale nel deserto destinata a diventare il più grande hub del mondo da e verso l’Asia, accoglie e anestetizza con i suoi luccichii; aiuta a non pensare troppo a dove si sta andando. “Rimani qui con me” sembra dirti e come Ulisse tra Scilla e Cariddi, saresti tentato di allontanare quel viaggio verso l’ignoto se un efficientissimo sistema di altoparlanti, smartphone e compagni di viaggio, non ti ricordassero con ideogrammi, sigle o cicalini che devi muoverti.

Quando il vecchio airbus 330 lascia il deserto alle sue spalle (la vetustà dell’aereo sembra essere stata selezionata apposta nel moderno parco aerei della Emirates, per accompagnarsi meglio allo stile del paese in cui atterrerà), ho la sensazione di bruciare a 350 km/h, insieme al kerosene dei motori, ogni speranza di cancellazione di quel viaggio per maltempo, indisposizione fisica, indisponibilità dei clienti.

Al resto ci pensano la stanchezza del jet-lag accumulato e un bicchiere di Bordeaux, che sembrano mescolare e sfocare sapientemente l’improbabile bellezza dei volti delle hostess, un crogiolo di “razze” che ti accompagna tra le braccia di Morfeo.

Non mi svegliano dal torpore neanche i sobbalzi dell’airbus, invitato a danzare dall’instabilità termica generata dalle correnti ascensionali di una terra che scotta e che fanno a pugni con la costante temperatura ben al di sotto dello zero garantita dalla stratosfera. Devo aspettare il touch-down.

Poi si apre lo sportello della Business e come stordito da un enorme asciugacapelli, cammino nel finger che mi collega all’aeroporto di Nuova Delhi. Ci sono 42 gradi.

Gli ufficiali al controllo immigrazione hanno tutti lo stesso sguardo e una smorfia di stanchezza: quello di chi non ne può più di un lavoro così monotono, ma pagato da uno stato semi-assistenziale. In confronto, i nostri dipendenti delle Poste sembrano dei cabarettisti.

Un taxista pagato dalla Emirates carica me e Daniele e ci chiede, come tutti i tassisti stranieri, da dove veniamo, e come al solito ho l’impressione che quando dici di essere italiano una scarica da elettroshock attraversa la corteccia cerebrale dello straniero che ti ha fatto la domanda. Rivedo la scena di “Ritorno al futuro”, quando il professor Emmett Brown accende la sua De Lorean e fulmini azzurri si sprigionano da ogni parte.

Mi piacerebbe vivere questo momento potendomi calare nel cervello del taxista indiano che ha appena percepito la frase “we are italians”. Immagino lo scatenarsi di neuroni impazziti che fissano nella corteccia cerebrale brandelli di sole, mare, Berlusconi, design, Ferrari, pizza, incapacità di decidere e organizzarsi, palloni di cuoio e centurioni romani.

Il taxista dice di avere solo due figli e che fa questo lavoro per relativamente tanti soldi rispetto ad esempio ai tre milioni di clandestini. La famosa manodopera clandestina, che campa con 50-80 euro al mese e che si accalca in un forno di 40 gradi ogni giorno per lavorare insieme agli altri 17 milioni di abitanti ufficiali della capitale.

Attraversando la città

Nella capitale non vediamo cadaveri per le strade come si narra nei libri dell’Abbé Pierre o di Madre Teresa, ma qui siamo nella zona commerciale di Delhi, Gurgaon.

Dal taxi vediamo invece gente che dorme per terra, all’ombra dei pochi alberi di giardini pubblici striminziti. Cani, asini e mucche randagie. Sì, il famoso animale sacro, come tale, è libero di pascolare indisturbato negli afosi sobborghi, ai bordi delle arterie principali, nei prati di periferia, pieni d’immondizia, fra palazzi in costruzione o, in alternativa, nelle stesse aiuole pubbliche dove il clandestino di cui sopra si è appisolato.

Pali e tralicci della luce pericolanti, che sembrano a stento sopportare matasse aggrovigliate di cavi di alta tensione. Scheletri di case di almeno 15 piani, in periferiche lande desolate, pronte a ospitare migliaia di famiglie di caste benestanti. Richiamano alla memoria i film di Dino Risi girati nelle periferie delle città italiane anni ’50.

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Il traffico è psichedelico, secondo soltanto a quello di Jakarta, Città del Messico o Lagos. Qui la guida è solo tecnicamente a sinistra, ma normalmente uno può guidare un po’ come gli pare. L’importante è giocare bene di freno e acceleratore, oltre ad avere dei buoni paraurti.

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Ci passano accanto tanti taxi: quelli normali, quelli ricavati da Ape Cars con carrozzerie sicuramente progettate da un ex ingegnere, ora Hare Krishna, alla fine della sua dodicesima canna giornaliera e i taxi risciò, quindi a pedali, che, a causa dello sforzo profuso per trasportare per 6 Km il carico delle due persone sedute sul lindo e comodo sedile posteriore, alla temperatura esterna di 45°, in un tale traffico, possono essere guidati solo da migliaia di ingegneri come quelli al punto precedente.

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Vediamo donne in sari che come in una disumana roulette russa, attraversano gli stradoni a doppia carreggiata e a tre corsie, tra spiragli creati nei New Jersey divisori, incuranti di mezzi di trasporto di ogni tipo, lanciati a pazza velocità verso l’ignoto.

E poi polvere. Polvere e ragazzi che giocano a cricket negli sterrati di periferia, opportunamente ripuliti dall’immondizia. Una partita di cricket dura diverse ore, anche giorni. L’escursione termica tra notte e giorno in questo periodo è 36 – 45 gradi. Non ho notato quanto corrono i giocatori.

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I controlli per la sicurezza

Il popolo indiano si dice sia tendenzialmente pacifico, a parte qualche scaramuccia con il Pakistan e nello Sri Lanka. Saurabh, il nostro consulente, tiene a precisare che l’India non ha mai invaso paesi confinanti.

Purtroppo però, i recenti attentati di matrice islamica (più povera e ignorante è la gente, più c’è speranza di reclutare religiosi che possono combattere per i nuovi “ricchi integralisti”), hanno forzato le autorità ad intensificare i controlli tutte le volte che si entra con le auto, ma anche a piedi, in hotel ed edifici pubblici. Giunti quindi all’hotel, viviamo sulla nostra pelle il minuzioso controllo.

Come in un agguato la guardia numero uno, proveniente da non si sa da dove, salta in mezzo alla strada parandosi di fronte al mezzo. Imbraccia un manico di scopa, alla cui estremità uno specchio gli permette di scovare sotto il motore (non il resto della macchina) eventuali ordigni.

La mano della guardia numero due entra dal finestrino anteriore sinistro e apre il portaoggetti (senza osservarne il contenuto).

La guardia numero tre batte con violenza sul baule (se ci fosse un ordigno sarebbe già esploso per il contraccolpo), chiedendo che venga aperto. Appena la serratura scatta, la guardia solleva di 20 cm lo sportello e lo richiude (stessa curiosità della guardia numero due).

A questo punto il mezzo, anche se fosse carico di 10 kg di esplosivo al plastico contenuto in un sacchetto sotto il sedile del pilota, può proseguire verso l’entrata dell’hotel, della scuola o della banca.

Possiamo procedere verso il portale-metal-detector (largo 70 cm), dell’entrata principale (larga 5,5 metri).

Il flusso di persone, è gentilmente pregato di lasciare le valigie (piene di tritolo?) agli uscieri che le portano nella hall senza attraversare il metal-detector.

Le borse delle signore e quelle dei pc, devono essere depositati sul tavolo di fianco, dove quattro guardie, di cui una sola operativa, ne verificano con meticolosità il contenuto: viene aperta una sola delle quattro cerniere e senza nemmeno aprire i due lembi, viene prontamente richiusa con un timido sorriso.

L’ospite dell’albergo invece subisce una fastidiosissima perquisizione: in confronto quei fastidiosi esami invasivi che si fanno dopo i quaranta anni, sono come mangiarsi un ghiacciolo all’orzata. Dopo aver fatto suonare a 80 decibel la sirena del metal-detector perché le sue tasche contengono: cellulare; chiavi… coltelli e 500 gr di plastico.

Una guardia con paletta metal-detector portatile, ripassa l’ospite da capo a piedi (cinque secondi al massimo). Anche lo strumento portatile urla come un neonato affamato, ed essendo uno strumento progettato da un ingegnere ne ha tutte le ragioni, in quanto i quattro oggetti della lista precedente sono ancora nelle tasche.

Dopo un sorriso e un “Welcome Sir, ci si può tranquillamente dirigere nella lobby con tutto l’esplosivo contenuto nella borsa del pc, nelle tasche e nella valigia, facendosi brillare allegramente al grido di “Allah akbar” davanti alla gentilissima signorina della reception che ci accoglie con il tipico saluto indiano a mani giunte.

La mobilità

Per chi ha qualche quattrino, l’auto è la massima ambizione. I giapponesi e i coreani hanno come al solito invaso l’India prima di qualunque altro Car Manufacturer. La Fiat è stata spazzata via dai monsoni Suzuki, Toyota e Hyundai. Tutto quello che ci rimane sono le Ape Piaggio e i taxi ricavati dalle vecchie 1100 anni ’50.

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La moto rimane comunque ilmezzo di trasporto più utilizzato, in quanto risulta essere la naturale evoluzione della vecchia bicicletta. Come in gran parte dell’Asia, anche in India si è nati sulle biciclette e di conseguenza negli anni ’80-’90, l’India si ritrova a essere uno dei maggiori produttori mondiali di motocicli (la cilindrata best seller è tra i 125cc e i 350cc).

Abbiamo visitato solo tre città indiane, che per altro accolgono in tutto “solo” una popolazione di 52 milioni di abitanti (tutta l’Italia esclusa la Lombardia).

In questo piccolo spaccato di India, che nulla ha a che fare con l’aerea urbana del Golfo di Napoli e nemmeno con la periferia di Bari o Palermo, abbiamo visto che il casco lo indossano solo i motociclisti di Mumbai e solo rigorosamente i conducenti delle moto.

I passeggeri sul sellino posteriore possono fracassarsi la testa liberamente in quanto la multa (130 rupie, circa 2 euro), viene data sempre e soltanto quando il conducente è senza casco. Saurabh ci dice che indossare il casco non è pratica comune in India e a Mumbay lo si indossa perché la polizia controlla in modo più severo.

La Tata manza e la Tata nano

Lasciando da parte per un momento i taxi Ape Car da psicopatici, i risciò, le Fiat 1100, le moto “famigliari”, i pullman e camion che per misericordia divina riescono ancora a trasformare il moto alternativo dei pistoni in un moto rettilineo uniforme: cioè un terzo abbondante del parco veicoli indiano, solo due vetture moderne hanno particolarmente attratto la nostra attenzione: la Tata Nano e la Tata Manza (ndr. Oggi è in produzione solo un modello di Tata Nano, la GenX e costa meno di 2.000 euro, la Tata Manzo ha cambiato nome in Indigo).

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La Tata Nano fa parte di un programma industrial/governativo, dove una delle più ricche famiglie indiane, la famiglia Tata appunto, padrona di banche, palazzi, compagnie assicurative, latifondi, supermercati e, per hobby, anche della più grande casa automobilistica indiana, ha deciso d’accordo con il governo di lanciare sul mercato un interessante concetto.

In India, come in qualunque altro paese emergente, la logica che “la macchina deve un mezzo accessibile a tutti” non è condizione necessaria e sufficiente.

Se le auto possono essere fatte per tutti è anche vero che non tutti possono economicamente permettersi l’auto.

Per smentire con del gran fumo negli occhi questo luogo comune e contrastare la minaccia tedesca Smart, il governo indiano insieme a Tata decidono che è ora di progettare e costruire una vettura low-cost. La Tata Nano, è grande quanto una Chevrolet Matiz, un metro in più della Smart e senza aria condizionata costa sul mercato 2.500 euro, poco più che un piccolo scooter qui in Italia.

I clandestini che vivono sotto i ponti guadagnando 30 euro al mese non se la possono permettere nemmeno ora, tuttavia probabilmente ci sono altri 125 milioni di indiani potenziali clienti.

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Per quanto possa pensare la mente umana più perversa (quella maschile ovviamente), la Tata Manza non è una governante di facili costumi, non è una badante che si concede e neppure una procace baby-sitter.

La Tata Manza è quanto di meglio abbia potuto esprimere per il suo popolo l’industria automobilistica indiana.

La ricca famiglia indiana possessore di questo marchio ha voluto rifarsi, dopo quasi cento anni dalla teoria lungimirante del mitico Henry Ford, progettando una dignitosa autovettura alla portata di tutte le classi medie (costa circa 5.600 euro). È un’auto che fuori dai confini indiani non dovrebbe avere un grande mercato, ma l’impiegato medio indiano ne va fiero.

Al supermercato

Daniele si è dimenticato alcuni oggetti a casa. Quale miglior occasione per visitare un supermercato locale vicino all’hotel e fare così di necessità virtù (lavoriamo in un settore commerciale parallelo), studiando il lay-out del punto vendita e i frigoriferi in esso contenuti?

La domenica sera è momento shopping sfrenato per l’indiano medio. Il supermercato brulica letteralmente di indiani che, contrariamente a quanto si possa pensare, non emanano fragranze orientali e profumi da Mille e una notte, bensì miasmi dei sottofondi di Delhi e una persistente puzza di sudore irrancidito.

I prezzi della merce sono ottimi, eccetto quelli dell’elettronica e degli elettrodomestici che, a detta di Santosh, i più furbi e facoltosi acquistano quando possono nella “vicina” Dubai.

Costo del carrello medio (ben pieno): 30-40 euro.

Ci caliamo nell’aspetto più professionale della trasferta e notiamo che il supermarket indiano è lungi dall’essere anche solo simile al più devastato hard-discount europeo, che è invece pieno di bellissimi murali refrigerati e pozzetti a spina.

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Rispetto ai trenta mobili refrigerati presenti in un supermercato europeo di pari superficie, qui ne abbiamo sette o otto, che potrebbero essere stati installati a seconda del punto di vista: 15 anni fa; due anni fa, ma presi sistematicamente a martellate dal personale del negozio negli orari di chiusura; sono stati appena installati e sono mobili di seconda mano, immaginiamo provenienti da un contrabbandiere dell’Arzebaijan, che baratta questi frigoriferi con sacchi di riso Basmati e curry (cambio: un mobile murale a cinque ripiani = un sacco di riso e 250gr di curry).

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La frutta e la verdura, come le uova, si vendono su tavoli a temperatura ambiente (come a volte anche da noi). D’altra parte perché spendere soldi per un frigorifero quando basta essere sicuri di vendere la merce in poche ore?

E se avanza la merce? ”No problem Sir”. A giudicare da pochissimi vegetali che anche se impercettibilmente si muovono da soli, basta avere pazienza (indù docet), prima o poi qualcuno comprerà la merce ugualmente, anche il giorno dopo. La domanda che ci poniamo è: ma allora a che serve il supermercato se basta una bancarella?

Le condizioni all’interno del negozio non sono ovviamente a norma (25°C e 60% di umidità relativa), ma che ce ne importa! La pagate voi la bolletta per tenere accesa 24/24 l’aria condizionata con questo caldo e questa afa? Tanto poi qui di carne se ne mangia poca e la si copre sapientemente di spezie.

Le vasche per surgelati sono ricoperte di ghiaccio, perché il ciclo di sbrinamento qui potrebbe essere evidentemente confuso per un micro effetto serra localizzato che il dio della siccità ha mandato per punire i poveri indiani.

I due frigoriferi murali devastati dalle martellate, con un tubo neon si e tre no, soffiano un sottile refolo d’aria a temperatura leggermente inferiore a quella ambiente fra polli sdraiati sugli scaffali in costume da bagno. Ma le bibite in bottiglia, quelle no, quelle sono sapientemente conservate a 10°C in bottle-coolers cinesi chiusi da porte appannate. Perché la bottiglia deve essere conservata fresca!

Infatti, una volta portata in coda alla cassa, dopo il giro del supermercato a 27°C, potrà essere collocata nel baule della macchina parcheggiata al sole a 50°C e trasportata fino a casa propria, dove verrà stappata e gustata alla verosimile temperatura di 30°C. Niente paura, l’India è un paese emergente.

La Grande Distribuzione Organizzata l’avrà vinta prima o poi e un miliardo di indiani potranno finalmente mangiare il cibo che si meritano, alle condizioni igieniche che si meritano.

Nel supermercato More della Birla (uno dei più grandi gruppi industriali indiani), a dimostrazione del fatto che i tempi sono cambiati e il contagio da batteri e virus per trasmissione fisica è ormai un remoto ricordo, si è deciso che le granaglie e il riso devono essere venduti sfusi. Il riso Basmati, i legumi secchi e granaglie di vario tipo, sono esposti in enormi fusti di acciaio inossidabile, accostati l’uno all’altro a creare un’accattivante composizione di colori.

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I clienti adulti del supermercato, possono tranquillamente toccare la merce nei bidoni assicurandosi della freschezza e della consistenza del prodotto. In questo caso, essendo l’adulto alto 1,7 m e il bidone un metro, il contatto fisico avviene soltanto tramite mani più o meno sporche che tastano da un bidone all’altro.

La parte più interessante è invece quando insieme agli adulti si avvicinano agli stessi bidoni bambini alti 1-1.2m. In questi casi il contatto con le granaglie avviene attraverso diverse parti del corpo: mani, mani unte, mani lerce, braccia impolverate, giocattoli impugnati dal bambino, testa (parte anteriore con relative secrezioni umorali) e testa (parte posteriore con capelli e popolazione degli stessi).

La dominazione inglese

Gli inglesi non riuscivano a pronunciare il nome Mumbai e così lo trasformarono in Bombay. Non riuscivano a pronunciare nemmeno il nome Bengaluru, così l’hanno chiamato Bangalore.

Quando parlo con Saurabh della colonizzazione inglese, sono evidenti le due facce di questo periodo storico durato quasi 200 anni. Saurabh mi dice che la prima cosa che un indiano racconta di questi 200 anni di storia dell’India, è sempre la fine: Gandhi. Mi dice che l’unicità della rivoluzione non violenta è stata la liberazione di questo popolo avvenuta in un modo mai vissuto prima dall’umanità, e mai ripetutosi dopo l’esperienza indiana.

Quando si prova a scavare e a capire che cosa è rimasto nelle nuove generazioni di quei 200 anni, che non sono quindi una piccola parentesi, è come svestire un corpo pudicamente coperto di veli.

Timide frasi sfiorano le orecchie come: “con loro abbiamo costruito strade, abbiamo organizzato un piano regolatore, sono nate città, si è messo in piedi un sistema scolastico aperto più o meno a tutti, abbiamo avuto la ferrovia. Forse da soli non saremmo arrivati in così breve tempo a essere quello che siamo oggi”.

A questo punto ho cambiato discorso, perché io stesso ero disorientato da questo modo di parlare dell’Impero Inglese e ho chiesto informazioni su usi e costumi.

Il lavoro

Quando siamo atterrati a Delhi, il nostro tassista ci aveva avvisato: trovare lavoro per il ceto medio basso è facile, ci sono tanti lavori mal pagati che tutti possono svolgere. Trovare lavoro per chi ha un’istruzione media, o non è comunque un genio da IIT (Indian Institute of Technology), è molto difficile.

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Per poter evitare quindi la sommossa popolare e poter garantire centinaia di milioni di voti al governo, in India si sono organizzati così:

  1. Si inventano i posti di lavoro: aiutante del cassiere del supermercato, aiutante del portiere d’albergo, aiutante, dell’aiutante del muratore, junior assistant of the deputy Senior Manager. Anche scaricare una macchina all’ingresso di un albergo richiede molto personale specializzato.
  2. Si concede una superficie a tutti. A Mumbai per esempio, famosa per essere una delle città più accoglienti (cioè che non respinge nessuno) dell’India, anche i marciapiedi sono subaffittati da chi li ha presi in affitto dalla municipalità. Nella periferia di Mumbai i marciapiedi non esistono (ma questa è la norma), tuttavia dove ci sono non si vedono, perché diventano suolo di qualche bottega o abitazione. Quando poi si è fortunati e si ha la bottega di 2m x 2m, allora con un soppalco che sfida le basilari leggi della fisica e della gravità, si realizza un vano che diventa la stanza da letto e il gioco è fatto. Chi non ha la fortuna di avere bottega, almeno a Mumbai può accontentarsi dei ponti.

La famiglia e la condizione femminile

In India il 70% delle coppie si sposa con un matrimonio combinato dalle relative famiglie di provenienza. Come tutte le civiltà cresciute però con un piede nella realtà ed uno in Internet, la ricerca dell’anima gemella da parte delle famiglie di origine non avviene più nei templi o nelle piazze delle città, ma attraverso siti internet specializzati.

Il nostro uomo, Santosh (residente a Dubai e di origine indiana), addirittura sembra voler dare una pennellata romantica a questo processo del matrimonio combinato. Santosh dice, pensando di essere molto più socialmente sensibile dei cibernauti, che un altro sistema per trovare la sposa o lo sposo casualmente, è quello di risalire nella ricerca ai cognomi di famiglie facenti parte della stessa tribù, casta o area geografica d’origine. Cool!

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Si cerca sempre di risolvere democraticamente i problemi di coppia: le famiglie dello sposo e della sposa si riuniscono e cercano di dipanare il groviglio che si è creato all’interno della giovane coppia. Per quanto questo approccio abbia del saggio e io stesso sia portato a considerarlo vagamente interessante, mi domando quanto possa avere un senso nella società di oggi e applicato in un paese che non sia considerato emergente come l’India.

L’imbarazzo poi mi assale solo al pensare a una problematica di tipo psico-sessuale. Quale il valore aggiunto delle famiglie di origine in questo caso specifico? Saurabh si sforza di convincermi che il dato di fatto è che l’India ha nel mondo la percentuale più bassa di divorzi, ma ancora una volta non replico e rimango a pensare che era così anche in Italia negli anni ’50.

Gli indiani formalmente salutano con le mani giunte, al petto. Fanno un lieve inchino e pronunciano la parola Namashkar. Il non toccare in alcun modo l’altra persona deriva, come anche per gli arabi, dal fatto che in passato la scarsità di medicinali, le epidemie e il caldo umido, obbligavano a evitare contatti fisici tra gli esseri umani onde limitare il più possibile il rischio di contagio.

Fra membri stretti della famiglia invece, nel saluto, le persone più giovani si inchinavano a toccare i piedi di quelle più vecchie.

In questo viaggio ci ha accompagnato, oltre a Saurabh, anche la sua assistente: Deepika. Deepika ha 28 anni e arriva con fatica a 155cm di statura.

Da quegli occhiali dalla grossa montatura nera, fa capolino uno sguardo sempre timido e interrogativo. Mi sembra sempre imbarazzata dalla presenza di questi “top-manager” italiani.

Dopo un meeting le ho chiesto se per caso non portasse il Bindu (il pallino rosso sulla fronte delle donne) perché ancora nubile, ma mi dice che il Bindu non significa necessariamente donna sposata. Le donne sposate hanno (solo a volte) una riga rossa sulla fronte o nella scriminatura dei capelli.

Per l’ennesima volta, all’uscita dell’edificio sede della catena Hypercity, la nostra comitiva lascia Deepika per ultima. La attendo al varco, tenendole la porta aperta per farla uscire prima di me, sembra quasi sbigottita.

Saurabh in macchina mi dice che è consuetudine in India lasciare le donne per ultime. Gli uomini precedono sempre per tradizione. Nel paese della giungla, con tigri e serpenti, gli uomini dovevano sempre aprire la strada per proteggere le donne da eventuali insidie.

Ho pensato che pur avendo visto vacche per le strade e asini che correvano in corsia di sorpasso, né a Delhi, né a Mumbai avevo incontrato tigri o serpenti; mi domandavo quindi per quanti anni ancora la povera Deepika avesse dovuto passare per ultima dalle porte.

Città a confronto

Durante il viaggio mi è spesso capitato di assimilare le città visitate in India con un loro ipotetico analogo italiano, così Delhi per me assomigliava a Roma; Mumbai a Milano e Bengaluru a Torino.

  • Delhi (Roma) è sede governativa: tutto è dovuto, niente è dovuto. È motore e nello stesso tempo zavorra di questo paese. Qui l’automobile comanda a prescindere da chi sei. Se sei a piedi, sei già un cadavere che cammina. È un forno di città e non è fatta per le donne. Il rischio stupro è generalmente elevato. Ho visto pochissime persone chiedere elemosina ai semafori. Ha rappresentato il mio arrivo in India e mi ha lasciato mal di testa e pressione bassa.
Nuova Delhi
  • Mumbai (Milano) è la città del commercio, incasinata come la circonvallazione milanese alle 8:45. Anche qui è un forno, ma almeno c’è il mare. C’è spazio per tutti, ogni centimetro di strada e marciapiede viene occupato, ma la città, circondata per tre lati dall’acqua, può crescere solo in una direzione. Si dorme sotto i ponti o nel soppalco di un negozio. È la città di Bollywood e la città delle prostitute, alcune ragazze neo-attrici che non sono riuscite a sfondare nel cinema. È ricca di palazzi vittoriani ma puzza di fogna, perché il mare è una fogna a cielo aperto.
Mumbay
  • Bengaluru (Torino) è la città delle software-houses, la città dei giovani ingegneri emigrati nella Silicon Valley, in California. C’è un bel clima e bella gente. Mediamente è più pulita delle precedenti due città. Ha rappresentato la voglia di tornare in Italia.
Bengaluru

E torniamo in Italia. Sbronzi di thè, puzziamo di spezie e il nostro stomaco brucia di peperoncino.

Ho molta confusione nella testa: i paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) fanno quasi tre miliardi di abitanti, più del 40% della popolazione del globo.

Che ne sarà di noi, paese di poeti, santi e navigatori se questi signori, anziché trovare un lavoro e un alloggio ai poveracci di Mumbai, una mattina alzandosi dovessero decidere che con qualche spicciolo a disposizione sarebbe bello comprarsi non una società (azienda) italiana, ma l’Italia intera?

Testo di Luca Lastella