Il primo elemento che mi fa intuire di essere tornato è la polvere. Secca, asciugata dal sole che ormai picchia da qualche ora sulla strada sterrata che ci riporterà indietro, al villaggio di Tasartico. Non più la spiaggia morbida e la schiuma del mare, solo la polvere della strada. Siamo ancora lontani dalla civiltà, ma in fondo, a monte, si possono scorgere le prime case. A valle, il campeggio dove eravamo due giorni fa, Camping Tasartico.
Daniel ha la maglietta fradicia di sudore e con le mani sudate prova invano ad asciugarsi la fronte. Ha appena appoggiato a terra il suo zaino e la tenda, la cui tracolla gli ha lasciato un visibile segno scuro sulla spalla destra.
– Gli altri?
– Sono rimasti un po’ indietro, qualche minuto e arriveranno, penso.
Gli rispondo mentre a mia volta constato di essere completamente bagnato e mentre lo guardo. Si è incantato a guardare alcune formiche che sembrano trasportare del cibo da un punto a un altro. Fra la polvere e i sassolini della strada. Un tragitto così insignificante per noi ma così lungo e impervio per loro. Un po’ come quello che abbiamo appena terminato noi, per tornare a Tasartico da Playa de Güigüí.
Playa de Güigüí è la numero quattro tra le spiagge che un gigantesco cartellone dipinto sul muro dell’ostello dove abitiamo, consigliava agli ospiti. Villaggi, cime montuose, luoghi dove arrampicare, dove surfare e via dicendo. I ragazzi di Tropical House hostel hanno scritto un elenco per ogni tipologia e realizzato un’immensa mappa geografica stilizzata con tanti numeri colorati che indicano il luogo di ogni destinazione.
Playa de Güigüí quindi, una spiaggia poco frequentata, sperduta sulla costa ovest di Gran Canaria. Un paio d’ore di automobile da Las Palmas.
– Noleggiamo una macchina e andiamoci. Là c’è un campeggio dove potremmo avere un po’ di sconto, perché sono amici dei proprietari del nostro ostello.
Lou e Alice hanno lanciato la proposta, Zac, Daniel ed io l’abbiamo colta al volo.
– Eccoci, ci eravamo fermati un po’ a riposare, avevamo finito l’acqua.
Parla Zac, mentre si piega sulle ginocchia a rifiatare.
L’acqua l’abbiamo finita anche noi; il caldo è secco e il sole cocente, a questa ora del giorno a cui inspiegabilmente abbiamo scelto di metterci in cammino per rientrare. Partiti alle undici del mattino, arrivati dopo circa tre ore con le spalle bruciate e la gola riarsa. Un paio di litri a testa non sono abbastanza.
Per fortuna al campeggio ci aspettano cibo, acqua e una doccia che mi toglie la polvere e la salsedine dal corpo. È proprio la doccia il secondo elemento che, come uno schiaffo, mi riporta indietro.
– Chi guida?
Mi metto al volante. In generale preferisco guidare piuttosto che essere passeggero e in particolare in questi giorni, mai come ora sto apprezzando la guida. Le strade di Gran Canaria, specialmente in questa area, non sono molto trafficate e il panorama non è mai noioso. Le curve, il mare da una parte e la costa dall’altra regalano all’occhio un paesaggio allo stesso tempo dolce e brullo, fatto di arbusti secchi e roccia vulcanica. Ci si potrebbe trascorrere le ore e la strada permette di compiere il giro dell’isola senza deviazioni.
– Posso mettere un po’ di musica? È Lou a rompere il silenzio in cui, stanchi, siamo caduti. Non ha perso un attimo per attivare la connessione dati e cominciare a rispondere a tutti i messaggi ricevuti durante questi due giorni in cui, per fortuna o purtroppo, siamo stati senza copertura.
Al campeggio il wifi ogni tanto funziona. Non si capisce bene né, quando, né come, né se segua un particolare schema orario. Ma da quando ci siamo messi in cammino non ci è voluto molto tempo perché tutti si trovassero senza la possibilità di usare il cellulare. L’escursione, a quanto ci hanno riferito, dovrebbe durare un paio d’ore abbondanti. Una per salire, si scollina e poi solo discesa.
Partiti a metà pomeriggio, contiamo di arrivare in spiaggia per il tramonto. Abbiamo una tenda, anche se, vista la temperatura, dovrebbe non servire, abbiamo un po’ di scorte di cibo per il tragitto, per la sera e per la mattina dopo. Frutta, un po’ di verdure da grigliare e un barattolo di vernice da cinque litri trasformato in un contenitore per un risotto con lenticchie già cucinato. Tipico nutrimento da escursione, diranno alcuni. In effetti… ma forse è anche bello così. Lo teniamo in mano, alternandoci l’un l’altro. Non siamo molto allenati e fa molto caldo. Le pause sono tante: per bere, per riposarsi, per ammirare un punto particolarmente suggestivo. Qui la roccia è quasi rossa e, quando arriviamo in cima, con il tramonto che comincia ad annunciarsi, ci fermiamo a lungo. Il sentiero, nel punto in cui si scollina, è stretto. Non ci si potrebbe stare in due. Ma è ideale per conferire alla scena un tocco cinematografico: salendo, il mare compare d’improvviso in mezzo al varco, incorniciato tra la roccia, il sentiero e il cielo.
Viaggiamo a circa 80 km/h lungo la strada curva e attraversiamo un villaggio dopo l’altro. Stiamo rientrando percorrendo la strada che fa il giro dell’isola in senso orario, passando da nord. Come all’andata. Zac avrebbe preferito provare a passare da Sud, da Maspalomas, per dare un’occhiata ad un paesaggio diverso, ma, questione messa ai voti, ha prevalso la stanchezza di tutti e la voglia di tornare a casa per cena.
– Non ho voglia di cucinare, usciamo a mangiare qualcosa.
Sono d’accordo con Alice, la guardo dallo specchietto retrovisore e le faccio un cenno di assenso. Lei sorride, come ho imparato a vederla sorridere mentre, il giorno prima, camminavamo verso la spiaggia.
Camminiamo uno dietro l’altro, cerco ogni scusa per voltarmi a guardarla e lei cerca ogni scusa per alzare lo sguardo e guardandomi, lasciarsi guardare. Quando cominciamo a scendere è già chiaro a tutti che non arriveremo mai in tempo. Infatti arriviamo che è già buio. Il tramonto lo vediamo dall’alto, provando ad essere più veloci del sole, come quando scegli di fare le scale e provi a battere l’ascensore.
In spiaggia sono già presenti un paio di piccoli gruppi di persone. Qualcuno mangia, qualcuno suona la chitarra, qualcuno preferisce passeggiare verso il mare, anche se a quest’ora ormai non si vede più niente. Non c’è illuminazione artificiale, a parte il fuoco.
Costruiamo con i pochi sassi che al buio riusciamo a trovare, un cerchio in cui accendere il fuoco e cominciare a cucinare. Non vediamo quasi nulla, così ogni movimento è scomodo e impacciato ma forse per questo ancora più carico di effetto. Anche il semplice passarsi un peperone grigliato, ci fa sentire più vicini.
Prendo la chitarra e inizio a cantare. Lou mi segue, mentre a due voci proviamo a dare un senso a Stand by me, di John Lennon.
Ha una bellissima voce. Me ne ero accorto subito, ma ora in macchina, mentre spegne la musica, imbraccia l’ukulele e inizia a cantare guardando fuori dal finestrino, non posso che ripensarci. Quando arriviamo a Las Palmas il cielo comincia a scurirsi; il tramonto è già passato ma le luci della città cominciano ad accendersi. Ed è questo il terzo e definitivo elemento che mi trascina con forza dentro alla realtà. Le luci dei semafori, dei ristoranti e dei locali notturni, i fari delle automobili e le luci, piccole ma infinite, dei cellulari dei passanti. E dei nostri cellulari, che riaccendiamo, ahinoi, ansiosi di scoprire che cosa ci siamo persi. Non ce la facciamo proprio a stare senza, se abbiamo la possibilità di connetterci.
Il cielo è scuro, ma le stelle quasi non si vedono.
– Troppa luce, troppo rumore, troppa vita. Stavo meglio a Playa de Güigüí, nella natura. L’uomo dovrebbe tornare alla natura.
È Daniel a parlare. Sembra dirlo più a se stesso, come se non si aspettasse un cenno d’intesa da parte nostra. Non reagisco, anche se vorrei fargli capire che sono d’accordo. Che tornerei di corsa in quella spiaggia, in mezzo a quegli arbusti secchi, bruciato dal sole di giorno e immerso nel buio la notte. Davanti al mare.
Davanti al mare, sdraiati uno di fianco all’altro, fissiamo il cielo nero, punteggiato di stelle. Le montagne intorno lo circondano e, viste da questa prospettiva, paiono ancora più imponenti, se possibile. Ancora più eterne, se possibile. Con una mano provo a scavare nella sabbia. Fino a sentirne il calore residuo, in fondo, contro la mia pelle. Fino al punto in cui mi addormento.