Do il bacio della buonanotte a “Umano, troppo umano”, lo chiudo, lo appoggio sul comodino.
Nietzsche, prima di girarsi dal suo lato del letto, mi saluta con questa frase: “Una volta che si sia trovato se stesso, bisogna essere capace di tempo in tempo di perdersi – e poi di ritrovarsi: presupposto che si sia un pensatore. A questo è infatti dannoso essere legato sempre a una stessa cosa”.
Non riesco a prendere sonno, impegnata in un numero insopportabile d’interrogativi quotidiani. Cosa voglio, in generale, da tutto, dalla vita? Non ne ho idea. Forse dovrei solo smettere di leggere di filosofia prima di andare a dormire, è più forte del caffè.
Decido di uscire. Resto in pigiama, infilo un maglione, il cappotto, le scarpe.
Un piede dopo l’altro mi addentro nell’oscurità. È dicembre, le persone si coprono, gli alberi si spogliano.
Credo siano le due di notte. Il tempo è relativo, mi dico. Le strade sono piene di vuoto. Le automobili, disabitate, attendono nell’immobilità le prime luci del mattino. I marciapiedi non hanno scarpe da sostenere. Io cammino in mezzo alla strada, il silenzio mi ascolta. Le finestre mute, non lasciano trapelare presenze; solo i letti sono pieni, lo resteranno ancora per qualche ora.
All’angolo della strada, sulla via perpendicolare a quella di casa mia, vive una famiglia numerosa. Ogni anno, nel giorno Sant’Ambrogio, l’enorme abete del loro giardino conosce la sua primavera. Sopra i suoi rami aghiformi sboccia un manto singolare.
Fiori di ogni colore s’illuminano, piccole lucine colorate si accendono ad intermittenza, continueranno a farlo fino al giorno dell’epifania.
Mi trovo davanti al cancello della villa formato grande-famiglia e l’abete, orgoglioso del suo mantello di luce, mi fissa con centinaia di piccoli occhi fulgidi. Sul capo, teso verso il cielo, indossa una piccola stella. Inchiodato al terreno con le proprie radici, tirato verso l’alto dal puntale. Così se ne sta immobile, quest’albero muto, teso tra il divino e l’umano, tra la magia e il materialismo, tra il bambino e l’uomo.
I miei occhi, seguendo il filo delle luminarie, giungono al punto in cui la spina che le alimenta è infilata nella parete esterna della casa.
Gli occhi di un bambino, mi dico, non si sarebbero spinti a cercare l’attacco delle luci, si sarebbero fermati alla loro bellezza.
Gli occhi di un adulto, però, lo fanno; è necessario che gli adulti tentino di scoprire la magia, così che gli occhi dei bambini possano illuminarsi.
Forse il Natale agli adulti serve a questo, a ricordarsi che la vita, comunque la si intenda, ha una qualche magia di fondo. A ritrovare un po’ il bambino che sopravvive in ogni adulto, quel modo di guardare il mondo che permette di non perdere il sentimento della meraviglia.
Continuo a camminare. Adesso non ho assolutamente idea di che ore siano, non so quanto tempo sia passato. Questa mattina ho dimenticato di caricare il piccolo orologio a molla che porto al polso in ricordo di mia nonna. Tutta la casa dormiva, lei l’unica a svegliarsi e a condividere con me la gioia dello scartamento dei pacchetti. Può essere che i bambini e gli anziani abbiano in comune molto più di quanto lascino intendere.
Entrambi sono più vicini ad uno dei due confini che ci delimitano l’esistenza, forse questo essere più vicini ai poli energetici della vita li rende più sensibili, gli permette di vedere sfumature che un adulto o un ragazzo non sono più, o non sono ancora, in grado di vedere. Io che vedo?
Non lo so.
Ora come ora nulla, non ci sono lampioni sulla strada. Non si accendono lampadine nella mia mente. Il freddo congela i neuroni che non riescono a fare contatto, come le macchine ghiacciate d’inverno.
Ecco delle case. “Buon Natale” canticchio questa scritta nella mia mente mentre la leggo appesa al balcone di un appartamento. Natale!. È possibile che ogni anno la concezione che ho di questa festività, cambi così radicalmente? Ma cos’è il Natale davvero, se dovessi avere l’inumana facoltà d’immaginare l’Idea platonica del Natale, come la vedrei? Alt! Tiro le redini. Nella mia mente faccio il verso che si fa ai cavalli per farli rallentare “Ohhh”.
Mi ammonisco: “cerca di non perderti in uno di quei sofistici vicoli chiusi della tua mente”. Ops. Troppo tardi.
La strada che mi si presenta davanti è chiusa. Distratta, non mi sono resa conto d’essermi immessa in una via senza uscite.
E ora? Mi giro e torno indietro.
Cambio strada, ne provo un’altra, vediamo dove mi porta. La tattica è la stessa, sui marciapiedi di questo paesino dove sono nata, come sui sentieri della vita. Accetto di aver sbagliato. Provo un’altra strada. È la casistica generale: a volte va bene, a volte va male. Diceva mia nonna. No, non è vero.
Lo dico io, ma se dicessi che sono parole di mia nonna in qualche modo avrebbero più autorità. Chissà perché, spesso, le parole degli anziani esprimono certezze. Forse perché hanno più esperienza, hanno visto più cose, ci paiono più sinceri. Eppure si lo stesso dei bambini piccoli, che in qualche modo sulle cose importanti sappiano sempre dire qualcosa di saggio e veritiero. Ai poli della nostra vita siamo per qualche motivo più saggi? Alt! Ohh. Altro vicolo cieco. Pensa più semplice. Fa freddo, la strada è poco illuminata.
Un uomo porta un cane al guinzaglio. Attraverso la strada sterrata che taglia il parco più grande del paese. Una serie di panchine lungo il sentiero; gli schienali in pietra sono dipinti da scritte di bomboletta, i cui colori sbiaditi, come cerchi all’interno di tronchi d’albero, suggeriscono la loro età avanzata.
“Quelle panche, zì, sono lì da tipo un botto di tempo”, mi suggerisce – nella mia testa- la voce di chi le ha imbrattate.
Le fronde sospirano accarezzate da una brezza ghiacciata. Il mare di nuvole, nel cielo, è calmo. Guardo la notte. È bellissima.
Mi trovo in un punto indefinito del parco, ho perso il senso dell’orientamento, il sonno e forse anche il senno.
Tra i cespugli riconosco il gatto del mio vicino. Non si allontana mai troppo da casa sua. Lo seguo.
Appena prima dell’uscita del parco, che coincide con l’inizio della mia via, c’è una panchina semidistrutta. Capisco dove sono. Ho sempre preso quello come punto di riferimento per uscire dal parco.
Fin da piccola mi ha colpito un disegno che c’è sopra. Uno scarabocchio casuale, di qualche ragazzo nella sua fase di ribellione, che ricorda una runa. Il mio ippogrifo felino mi ha indicato la strada, mi ha portato sulla runa. Ritrovo la retta via di casa.
Mi siedo per qualche minuto su quello che resta della panca di cemento. Quando ero piccola un’amica di mia madre, per Natale, mi regalò un sacchetto pieno di pietre trasparenti. Sopra di esse erano disegnate delle rune, che mi spiegò essere dei piccoli caratteri alfabetici e simbolici dell’antico mondo germanico. Tacito, nel suo Germania, scriveva che i germani traevano auspici servendosi di rametti su cui riportavano le rune. Buttavano i pezzi di legno, a caso, su di una veste bianca e invocavano gli dei. Il sacerdote poi raccoglieva tre pezzi, uno per volta, e li interpretava secondo il segno impresso.
Da piccola, quando un dubbio mi assaliva, prendevo il mio sacchetto di rune, gettavo i sassolini sopra il letto di mia madre e ne raccoglievo tre. Non che ci credessi particolarmente, però insomma, è come la storia del lancio della moneta. Mentre è in aria ti rendi conto di cosa vorresti che uscisse, è quello che conta.
A volte perdersi per qualche secondo nelle possibilità aiuta a rendersi conto di che cosa si voglia davvero.
Perdersi per ritrovarsi.
Ritrovo la mia speranza, forse il senno. Sono Astolfo sulla runa.
Albeggia, di colpo i lampioni si spengono. Un attimo intenso di buio.
Ed è subito mattina.