Oltre l’apparenza: la malnutrizione silenziosa di Germaine

Nella campagna congolese la malnutrizione è un mantra antico. Guglielmo ci racconta l’incontro con il piccolo Germaine e il suo silenzio indolente, capace di nasconderne la malattia acuta.

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Nome: Mumba Germaine | Villaggio: Baya | Età: 48 mesi

Ci sono giornate così, in cui ti ritrovi a seguire una campagna di monitoraggio nutrizionale e tutti i bambini che prendi in braccio per la pesa si sciolgono in ululati di pianto isterico.

È un effetto a catena: comincia il primo, chissà, magari spaventato dal colore di una pelle così diversa, così pallida, e via a cascata seguono tutti gli altri.

Quando nella fila davanti alla bilancia allestita sul ramo più robusto e orizzontale del mango al centro del villaggio di bambini ce ne sono decine e decine, timidi e titubanti tra le braccia forti delle mamme, la scena può prendere le forme di un film dell’orrore.

Alle grida del bambino che scende dal seggiolino di stoffa sospeso si intrecciano quelle del prossimo, senza soluzione di continuità, e cercare il dato del peso sullo specchietto nascosto dietro alle braccine che non smettono di dimenarsi diventa una piccola impresa.

Mi ero già rassegnato a una mattinata di lotte innocue e urla fuori controllo; il domino dei pianti isterici era entrato nel suo vivo e le mamme d’intorno si abbracciavano a vicenda per contenere le risa vedendomi tentare le soluzioni più disparate per riuscire a misurare il peso dei loro figli.

Poi d’improvviso arriva lui, guancia paffute e capelli a germoglio radi su una testolina ovale. Inspiegabilmente calmo, mansueto, mi guarda con due occhioni larghi come biglie. È vestito con una canottiera colorata da spiaggia e un pantaloncino floreale, ai piedi dei calzini a righe che sembrano scivolargli via ad ogni passo.

Lo raccolgo dalle mani della madre e resto esterrefatto dalla sua capacità di estraniarsi dal sottofondo di disperazione e risa che colora il villaggio. Lo tengo per qualche istante vicino al petto prima di infilarlo nel seggiolino. Sento un battito calmo e la pelle umida appiccicarsi alla maglietta. Ci guardiamo nelle pupille; le sue sono circondate da un filo di occhiaie beige che male si intonano con gli zigomi tondi e soffici. Lo bacio sulla fronte e lo inserisco nella sacca per la pesa. Continua a fissarmi negli occhi, durante ogni movimento, come se volesse essere sicuro che non commettessi sbagli.

Vedo che la nutrizionista Karyl si alza dal tavolo di consultazione per avvicinarsi. Mentre libero il piccolo, i suoi occhi continuano ad aggrapparsi ai miei. Non piange, non ride, mi guarda e respira con tutta la calma del mondo. Guardo Karyl misurare la circonferenza del suo braccio e poi scambiare qualche parola concitata con la madre a pochi passi di distanza.

Nel mentre, gli occhi a biglia continuano a cadere nei miei e il turbinio di pianti e risate intorno sembra farsi lontano e ovattato.

Chiedo a Karyl cosa non va e lei mi spiega che l’eccessiva “tranquillità” del bimbo, l’alone beige attorno agli occhi, i capelli radi, sono tutti sintomi di uno stato di malnutrizione avanzato. La misurazione della circonferenza del braccio e il racconto della mamma sul tipo di pasti hanno confermato la diagnosi.

La malnutrizione può nascondersi in un aspetto morbido e placido, andando a colpire le capacità di interazione del bambino. In questi casi bisogna intervenire immediatamente con un rinforzo nutrizionale di emergenza fatto di razioni di soia, arachidi e farina di mais. La tempestività è cruciale per evitare che la malattia si cronicizzi e le conseguenze diventino irreversibili.

Mi giro verso la mamma e chiedo il nome del bimbo. “Germaine”, mi dice con un velo di rassegnata tristezza. Sposto allora gli occhi sui suoi e li trovo ancora lì, immobili dove li avevo lasciati, persi alla ricerca dei miei.

Dopo aver segnato il suo nome a lettere maiuscole “G-E-R-M-A-I-N-E” nell’elenco dei bambini seguiti dal programma di sostegno nutrizionale a domicilio, faccio cadere un’ultima carezza sulle guance paffute e i capelli radi. Ci scambiamo uno sguardo d’arrivederci carico di pace e una bizzarra confidenza.

Lo lascio appollaiato tra le braccia della mamma, calmo, placido, e passano un paio di secondi prima che mi decida a voltare gli occhi per tornare ad ascoltare il tran-tran del piagnisteo riprendere vita nelle sopracciglia corrugate di una bimba magrolina pronta per essere pesata.

In quel paio di istanti silenziosi e sospesi ho sentito tutta l’esigenza di lavorare per accendere d’energia gli occhi molli di Germaine. Nella sua calma fragilità ho scoperto il volto di una urgenza e di un bisogno che questi villaggi vivono da decenni.

Qui in Congo, con il nostro lavoro all’interno di AMKA, tentiamo ogni giorno di cambiare questa storia antica. Qui in Congo, cerchiamo con tutti gli strumenti a disposizione di spezzare l’indolenza morbosa dalle pupille di un bambino di quattro anni.

A presto, piccola pace paffuta; è scivolata una promessa nel silenzio dei nostri sguardi.