Gli occhi socchiusi sull’America Latina

Un viaggio che è stato a lungo un sogno e, dopo questi mesi di blocco, presto diventerà realtà. Il culmine di un percorso che da Raffaella Carrà arriva a Eduardo Galeano.

Il trip dello spagnolo mi è arrivato tardi. Come la stragrande maggioranza dei miei coetanei, la vacanza di maturità aveva due possibili destinazioni: Grecia o Spagna. Le nostre riserve, caso più unico che raro, erano già state sciolte l’estate precedente, quella dei mondiali di calcio del 2010. Il 10 luglio, nella fredda notte Sudafricana, con un gol ai supplementari di Andres Iniesta (“Iniesta de mi vida” come lo ha reso immortale il telecronista Josè Antonio Camacho) la Spagna si laureava campione del mondo per la prima volta nella sua storia. Lo interpretammo come un segno del destino: l’estate prossima andiamo lì, dai campioni del mondo.
Ora, la premessa può anche avere un fondo di romanticismo, prontamente smentito dalla location scelta: Lloret de mar, la Rimini di Spagna. Il primo approccio con il mondo spagnolo è stato sui generis, e anche il secondo. Il primo anno di università sono andato in vacanza a casa di un amico a Tenerife, una sorta di colonia anglo-russa in territorio spagnolo di fronte alle coste atlantiche del Marocco.

Finalmente, gli ultimi anni universitari hanno incanalato il mio rapporto con la lingua spagnola verso qualcosa di più evoluto di mettere la “s”, per chiedere un mojito in discoteca. Un corso di lingua e cultura mi ha finalmente avvicinato a usi e costumi differenti dallo stereotipo di tapas e corrida, e suoni più evoluti di una canzone di Raffella Carrà. Ho iniziato studiando la storia di un paese che, a sentimento e spesso anche a ragione, avvertiamo vicinissimo al nostro. Gli approcci linguistici sono stati i classici: far prendere la polvere ai libroni di grammatica; film di Almodovar in lingua originale coi sottotitoli, poi Narcos senza sottotitoli; fermarsi in mezzo al locale mentre tutti ballano per carpire i testi di Enrique Iglesias e Shakira.

Il grande passo arriva coi libri: quello di grammatica continua a rimanere impolverato, ma leggere letteratura in lingua cambia veramente il rapporto con lo spagnolo. Ho iniziato con il castigliano di autori spagnoli contemporanei: da Perez-Reverte ad Aramaburu. Poi la svolta, quando la lingua dei conquistadores abbraccia la mistica dell’America latina: la letteratura sudamericana in lingua è un’altra cosa, un’autentica rivelazione. “Cent’anni di solitudine” mi aveva fatto, senza troppi giri di parole, schifo. Lo avevo letto da piccolo, mi era stato imposto come lettura estiva alle medie. Tutti quei nomi, il timore di dover venire a capo di una storia intricata per farne un riassunto, quello sterminato albero genealogico da ricordare in un’interrogazione a settembre. Sembra una stupidaggine quella del problema della lingua, ma l’ha avuta anche Gabriel Garcia Marquez per la stesura del libro. Nel 1965, quando era ancora un giornalista affermato e un romanziere in erba, ha sofferto di un blocco creativo, frustrato dal rendersi conto di trovarsi di fronte all’opera della sua vita e non riuscire a trascriverla in maniera soddisfacente. A gennaio, mentre era in vacanza con la famiglia in Messico, sulla strada per raggiungere la località di villeggiatura di Acapulco, ebbe un’improvvisa visione di come scrivere il romanzo. Quell’incipit con il colonnello Aureliano Buendia di fronte al plotone, quel tono che ha cambiato la storia del realismo magico, altro non è che “basato sul modo in cui mia nonna raccontava storie. Diceva cose che apparivano soprannaturali e fantastiche, ma le raccontava con assoluta naturalezza”. In quel gennaio del 1965 Gabbo ebbe una visione sulla strada per Acapulco. Fermò la Opel che stava guidando, dicendo alla moglie di aver finalmente trovato lo stile giusto per la sua scrittura. Tornato a casa, si chiuse nello studio per 18 mesi, pregando Mercedes Barcha di occuparsi di ogni cosa. La povera signora Marquez contrasse oltre 12.000 dollari per la conduzione familiare, finché il romanzo non fu pronto nel 1967.

Una visione l’ho avuta anche io rileggendo “Cent’anni di solitudine”, anzi leggendo per la prima volta “Cien años de soledad” che mi ha accompagnato nel mio primo “vero” viaggio in Spagna, quando sono andato tre mesi a Madrid per fare la ricerca della tesi di laurea. Lì è iniziato un legame vero con la lingua di Cervantes e Gabbo Marquez. Rapporto che è stato rafforzato l’anno successivo da un altro soggiorno in terra iberica, quando sono andato a lavorare sei mesi in un ostello a Siviglia.

In quei mesi ho scoperto Eduardo Galeano e ho cominciato a sognare a occhi aperti di andare in Sud America, leggendo le sue “Vene aperte dell’America Latina”. Un saggio scritto nel 1971, all’inizio di un decennio contrassegnato dall’esplosione di dittature in un continente da secoli vittima di sfruttamento, violazioni e ingerenze esterne; ma anche culla di bellezze incontaminate e selvagge, di culture ed etnie che si mischiano. Le vene aperte dell’America Latina è il libro che nel 2009, durante un vertice delle Americhe a Trinidad e Tobago, il presidente della repubblica venezuelano Hugo Chávez ha regalato a Barack Obama, come segno di distensione. Un libro simbolo per provare a persuadere l’inquilino della Casa Bianca a modificare la politica del proprio paese verso il Continente. Galeano usa un linguaggio degno di una storia d’amore o di un romanzo di pirati, riuscendo nella difficile impresa di creare un saggio non noioso. Un libro che fa aprire gli occhi sul Sud America, ridesta dal torpore per accendere un concreto desiderio di viaggiare.

Questi mesi di restrizioni non sono passati semplicemente, ma non si è nemmeno trattato solo di tempo perso. È stata una sospensione, in cui ho potuto prendere la rincorsa per il grande salto: ho deciso, a breve prenderò il biglietto per il Sud America. Dopo il castigliano e l’andaluso mi attende la sfida più difficile con lo spagnolo, probabilmente anche la più bella: quella con il latinoamericano.