Belchite, il paese diviso dalla linea della storia

Nel borgo aragonese convivono il nuovo e l’antico, ma nettamente separati e contrapposti da un confine interno tra il villaggio agricolo nato negli anni sessanta e le rovine della città fantasma lasciate intatte dopo la distruzione della guerra civile spagnola.

Belchite è un piccolo paese a 49 km da Zaragoza, capoluogo dell’Aragona, provincia spagnola.

Osservando la mappa della regione, si osserva curiosamente come a lato di Belchite figuri Antiguo Belchite (antico Belchite), separati dalla linea rossa che demarca il confine della zona abitata.

I due paesi, il vecchio e il nuovo, convivono dal 1954 quando il secondo venne inaugurato da Franco in persona. Il paese vecchio venne distrutto tra il 24 agosto e il 6 settembre 1937 durante una delle più importanti battaglie della guerra civile spagnola, quando i repubblicani nell’avanzata verso Zaragoza incontrarono le resistenze dei franchisti che vi si erano insediati.

Nel 1939 Franco, alla vittoria della guerra, decise che il paese non sarebbe stato ristrutturato ma sarebbe rimasto esattamente com’era, per contrapporre alla “Barbarie Rossa” dei repubblicani che avevano organizzato l’attacco, l’ordine, il rigore e la pace del paese nuovo, simbolo della rinascita spagnola.

Per raggiungere Belchite bisogna abbandonare Saragozza di buon’ora, prendendo uno degli ottimi bus che collegano il capoluogo ai paesi di provincia. Il clima è arido in qualunque mese dell’anno e il deserto si snoda intorno al fiume Ebro che ne delinea la depressione.

Per un turista italiano questa piana spagnola è quasi sconvolgente per l’assoluta mancanza di centri abitati e agricoli, un nastro d’asfalto che si snoda in un paesaggio lunare.

L’autobus ti lascia in una via del centro abitato, che d’estate sembra uscire da una serie televisiva post apocalittica di un’invasione zombie: parchi giochi con erba bruciata, un immenso viale su cui si apre la piazza principale, costruita per ospitare parate, su cui ad oggi si affacciano solo un bar, una banca con le imposte chiuse e una fontana spenta.

Dopo la colazione con pane e pomodoro o tortillas (uova, cipolla e patate cucinate ad arte), si visita il minuscolo centro turistico per comprare il biglietto d’ingresso al paese vecchio, scortati da una guida.

Allontanandosi dal centro del paese si scorge la vita che anima la zona industriale, qualche fattoria, rivenditori di olio e simpatici finti soldati della resistenza che per una foto con loro chiedono intorno ai cinque euro.

Si passa attraverso una porta ad arco e qui il paesaggio muta radicalmente.

Una via stretta su cui si affacciano le case del paese vecchio, una abbracciata all’altra, coi tetti sfondati, scale che si perdono nel cielo e camere che si offrono nude al sole spietato dell’Aragona.

Il sentiero è polveroso e tra i pochi turisti che vi accompagnano cala il silenzio, mentre si prosegue per il sentiero fino a superare la croce dei caduti e giungere all’impressionante Iglesia de San Martin de Tours, la chiesa di San Martino.

Questa cattedrale nel deserto costituisce uno spettacolo eccezionale per qualunque visitatore. La facciata integra e le colonne delle navate si ergono stoiche nella polvere del sagrato, mentre non rimane nemmeno una traccia dei soffitti.

Sull’antica porta all’ingresso si legge una frase scritta in stampatello: “Pueblo viejo de Belchite ya no te rondan zagales ya no se oiran las jotas que cantaban nuestros padres. N.B.” (paese vecchio di Belchite, ormai non gironzolano più i ragazzi e non si sentiranno più le danze che cantavano i nostri padri).

Le Jotas Aragonesas sono un tipico ballo e canto del folklore della regione e la sigla finale (N.B.) è la firma dell’autore della breve poesia che è diventata un simbolo del paese. Natalio Baquero era nato a Belchite il primo settembre del 1937, durante il conflitto, e fu l’ultimo abitante ad abbandonare il vecchio borgo distrutto.

Oggi questa splendida costruzione fa da cornice alle visite notturne al pueblo viejo (paese vecchio) per ammirare la via lattea e il cielo stellato del deserto aragonese.

All’occhio del turista moderno, a più di 40 anni dalla morte del Caudillo, appellativo del dittatore Franco, e di fronte a una società spagnola ancora profondamente divisa nelle sue diverse anime e identità, l’impressione che fa l’attraversare il confine tra i due paesi non potrebbe essere più forte.

Da un lato la distruzione che sembra non essere figlia di nessun uomo e quindi, potenzialmente, di qualunque uomo e l’orrore della guerra che si prova a visitare questo sperduto pueblo della provincia spagnola, la stessa che si prova a camminare per le vie di Sarajevo o ad osservare dal televisore le immagini della moderna Aleppo.

Dall’altro la ricostruzione, la volontà di potenza dei vincitori che si impongono, l’autocelebrazione di un paese che ad oggi conta 1500 abitanti e ben poco altro da offrire anche al visitatore più entusiasta.

L’intenzione di Franco di riportare ad eterna memoria l’orrore delle devastazioni dei repubblicani si perde oggi nelle macerie di una desolazione che rappresenta l’inevitabile prezzo da pagare per ogni guerra.

Avventurarsi tra le macerie, camminare per le stesse strade solcate da Hemingway nella sua avventura spagnola, osservare la cupola rimasta integra all’attacco aereo, perdersi nel cielo stellato, trapunto di stelle e poi tornare alla placida pianura spagnola, in cui tutto sembra immobile in un eterno presente rappresenta per il visitatore un viaggio nel passato e un colpo d’occhio istantaneo e vitale sul presente.

Il confine tra paese vecchio e nuovo è il confine tra l’ordine e l’apparenza della vita civile e l’orrore della guerra, uguale in ogni angolo del mondo e capace di scatenarsi nel nostro caro Vecchio Continente meno di cento anni fa.