Genova: nei quartieri dove il sole del buon Dio

Se per le strade c’è ancora qualcuno che si spoglia e vuole cantare, che il sole del buon Dio sia benedetto; il racconto della “Cantata anarchica per Fabrizio De André”.

Le diciotto, minuto più minuto meno. Esco dall’ufficio, in una ridente via della zona sud-ovest di Milano. Il tempo di saltare in sella e prendere velocità e sono già arrivato a casa. Una delle, seppur poche, fortune di fare il lavoro che faccio, è che l’ufficio si trova, appunto, a poche centinaia di metri da dove abito. Spesso riesco anche a tornare per pranzo e concedermi un brevissimo pisolino. Come è successo oggi, quando ho appoggiato la testa sul cuscino, per non più di dieci minuti, cullandomi tra la digestione e l’attesa della sera, aprendo le labbra a metà strada tra la monotonia di un pomeriggio di lavoro e il sapore di una sera che, ne sono sicuro, sarà diversa dalle altre. E adesso la sera è arrivata. Sarebbe meglio dire quasi arrivata, perché il sole è ancora alto dietro ai palazzi della via e fuori fa ancora caldo.

L’asfalto è rovente, che non ci si potrebbe appoggiare i piedi nudi. Passo davanti alla panchina di fronte alla gelateria, un bambino è seduto e lecca un gelato; metà lo lecca lui, l’altra metà se lo contendono la sua mano destra e la sua maglietta azzurra, un po’ troppo grande. Le gambe si dondolano allegre, dentro a un paio di jeans chiari, di quel tipo che la mamma compra per farti sembrare già un bambino grande.

Arrivo a casa, apro il box, parcheggio la bicicletta e lo richiudo, salgo le scale ed entro in casa, prendo la chitarra, già pronta nella custodia, bevo un bicchiere d’acqua e ingollo un’albicocca, chiavi di casa, chiavi della macchina e mi richiudo la porta alle spalle. Scendo le scale a gradini alterni, carico la chitarra nei sedili posteriori ed entro nell’abitacolo. Accendo il motore e guardo: dovrei avere benzina a sufficienza. Centoventi chilometri circa. Un’oretta, escludendo il probabile traffico in uscita dalla città. Che infatti, puntualmente, non delude, soprattutto considerata l’ora, una delle peggiori della giornata per muoversi in auto. Tendo a muovermi il meno possibile in macchina: non mi piace, non mi piace né quando la strada è libera e si può andare veloce, né quando si è bloccati e costretti a una fastidiosa ginnastica di frizione-prima, frizione-folle che, affaticando il piede, finisce per esaurirti completamente.

La bicicletta, al limite il motorino, oppure i piedi.

Imboccata la tangenziale però, la strada si fa scorrevole e, oltrepassato Assago, si trasforma nella A7. Tre corsie, per il primo tratto quasi prive di curve e oggi anche quasi prive di auto. Trascorro l’ora di viaggio con il sole in faccia e gli occhiali addosso. Verso la fine, in Liguria, dopo il passo del Turchino, la strada si fa tortuosa, comincia a scendere ed è riparata dal sole da una vegetazione più rigogliosa, dai primi paesini e dalle loro case e, soprattutto, da quell’infinità di gallerie che tutti hanno bene in mente. Arrivo al casello quando la luce è ancora forte, anche se già si annuncia un tramonto. Tramonto che però non vedrò: questa sera ho deciso di imboscarmi fra gli angusti caruggi della città vecchia.

Ho un’idea certa ma piuttosto generica del luogo in cui devo andare. So soltanto che è dalle parti di Via Pré e conosco l’indirizzo. Vico delle Marinelle. In qualche modo troverò la strada.

Distratto da queste riflessioni, però, mi perdo nello svincolo prima della sopraelevata, sbaglio strada e finisco imbottigliato nella coda per il porto.

-Sono tanti anni che manco dalla Sardegna, ma questa sera sto soltanto cercando di andare in città vecchia, come posso fare?

È quello che dico quasi ridendo, all’ufficiale che dopo avermi fatto abbassare il finestrino aveva esclamato: biglietto d’imbarco sul cruscotto, prego. Con un paio di manovre, riesco a tornare indietro. Cerco parcheggio un po’ ovunque, un po’ a occhio, come farebbe uno che non conosce la città. Provo a Piazza del Caricamento, ma è tutto pieno. Provo oltre ma senza risultato. Infilo una delle vie traverse che salgono. Mi allontano di qualche chilometro, ancora niente da fare. Mentre osservo queste curve strade in salita dai cui lati ogni tanto sbucano splendidi palazzi d’epoca, scorgo un posto. Ci sto, ma è troppo lontano qui, mi dico. M’illudo di trovare un parcheggio più vicino alla città vecchia. Come se non sapessi come funzionano i parcheggi nelle città grandi e popolate.

Scendo di nuovo abbandonando la pace dei palazzi d’epoca, della vegetazione, delle strade pulite e del silenzio, in favore dei semafori, degli autobus e di quella sopraelevata che spacca in due tronconi il cielo agli occhi di chi scende. Trovo infine un posto, a pagamento, sul viale del porto, a pochi passi da dove devo andare. Inserisco qualche moneta nella biglietteria automatica, lascio il biglietto sul cruscotto, prendo la chitarra e m’incammino.

Sono a Genova, ho un paio di ciabatte ai piedi e ne sento quel rumore ripetuto che spesso infastidisce, ma che ora scandisce i passi verso i caruggi, verso Vico delle Marinelle. Sono da poco passate le sette e mezza.

Via Pré – non c’ero mai stato prima d’ora – è tutta in ombra a quest’ora, ma è un tripudio di colori e odori senza fine. Il vestito a pois blu e gialli di una donna centro-africana seduta fuori dal proprio negozio sembra fare l’amore con il ciottolato sconnesso e in pendenza. Sembra farci l’amore lo stesso, nonostante il rigagnolo di piscio che scorre poco in là e nonostante i due militari che – mano al calcio del fucile, probabilmente carico e sguardo pieno di sé – le sfiorano incuranti lo strascico. È soltanto questo ciò che riesco a notare, perché poco dopo svolto a destra. Ho letto il cartello “Vico delle Marinelle” e l’ho seguito. Un caruggio strettissimo, in leggera salita, che dopo meno di cinquanta metri si apre in una piazzetta circondata da palazzine ristrutturate da poco e insolitamente gremita di gente. Sono arrivato. Mentre i pois gialli e blu della donna centro-afritcana stanno ancora svanendo ai miei occhi, un coro lieve, accompagnato da un paio di chitarre, giunge fino alle mie orecchie. Sorrido, mentre mi scopro con le labbra già aperte a cantare, seppur ancora a bassa voce.

Si son presi i nostri cuori, sotto una coperta scura
sotto una luna morta pccola, dormivamo senza paura.

La serata è già iniziata, i primi credo siano arrivati già da un’ora. Di fronte a me siedono una cinquantina di persone, a formare un cerchio. Al centro, due ragazzi suonano la chitarra. Lui ha i capelli biondi a caschetto, lei indossa una canottiera bianca. Mentre cantano, lui ondeggia con la testa, per sistemarsi il ciuffo; lei si guarda intorno, non riesce a stare ferma. Come stesse cercando la prossima strofa sulla bocca degli altri, come se chiedesse loro una mano, tendendola allo stesso tempo.

E sono gli altri a parlare, quando la canzone finisce. Ognuno propone: la sua preferita, o la canzone preferita dell’amico che non vuole alzare la voce, oppure la canzone che ritiene più difficile, oppure ancora quella che crede sia più facile da cantare. Nessuno comanda, nessuno decide che cosa suonare. Unica regola, l’autore: questa sera si suonano soltanto le sue canzoni. Come recita il titolo dell’evento, Volume 4, è la quarta volta che un ritrovo tematico e – a suo modo – anarchico, si svolge a Genova. Un numero libero e indefinito di persone che suonano, chi la chitarra, chi il cajon, chi – i più arditi- un violino. La piazza, la gente, i passanti, cantano, se vogliono, altrimenti ascoltano.

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole.

Già. Come un martello pneumatico questi versi mi perseguitano da quando li ho capiti la prima volta. Da quando, per farla breve, ho saputo il mondo che ho nel cuore e da quando ho imparato quanto sia difficile raccontarlo. A pochi passi da me c’è uno dei ragazzi che ha organizzato il raduno. Lo conosco perché l’ho già incontrato a Milano durante appuntamenti simili. È qui con la sua ragazza, che per nulla al mondo potrebbe perdersi un’occasione del genere. È scesa anche lei da Milano, ma si fermerà qui a dormire. Beata lei. Sono entrambi di Genova, lei innamorata di ogni singolo caruggio della città vecchia, tanto che ci camminerebbe per giorni interi, sostiene. Lui tifoso sfegatato del Genoa. Come ogni vero genovese, dice. Un giorno, ricordo, mi aveva promesso di portarmi a vedere Via del Campo.

-Non è lontana da qui vero?

Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi
ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi.

Ho finito di trangugiare un panino e ho imbracciato la chitarra, sedendomi al fianco dei due ragazzi al centro del gruppo che, sorridendomi, mi avevano invitato. Stiamo suonando uno dei miei pezzi preferiti e forse il più rappresentativo della zona della città in cui siamo seduti. In cui sono seduto a piedi nudi, in un tentativo a metà strada tra la chimerica volontà di abbracciare e sentire meglio la città e il cretino e infantile anelito inconscio a sporcare poi l’asciugamano di casa. Ho detto uno dei miei preferiti, ma mentre lo dico, ogni volta, mi accorgo che lo penso per troppe canzoni e che, in fondo, non saprei dire quale sia davvero il pezzo che mi piaccia di più. Forse la migliore è quella che non ha mai scritto.

Alzo la testa e scorgo un altro ragazzo, un altro di quelli che ho già conosciuto in precedenza, con cui ho già suonato e cantato fino a notte inoltrata. Si è portato l’acustica, come fa sempre, e comincia a suonare. La accorda mentre suona, a orecchio.

Umbre de muri muri de mainé
Dunde ne vegnì duve l’è ch’ané.

Come un fiume in piena, le canzoni si susseguono, a volte sovrapponendosi, una dietro l’altra. Vestendosi dell’entusiasmo di ogni singola voce, anche la più stonata, che le prova a cantare. Molti di loro, molti di noi, le sanno quasi tutte a memoria. Anche quelle in dialetto genovese. Le cantano e le ricantano, ci si rannicchiano dentro, come fossero una seconda pelle.

Quello che non ho
è una camicia bianca,
quello che non ho,
è un segreto in banca.

Un segreto in banca forse ancora no, ma una camicia bianca ce l’ho, ahimé. E a furia di metterla finirò per apprezzarla. Ma non voglio abituarmi: preferisco cantare, a piedi nudi, tra i caruggi, per quanto puzzolenti possano essere. Al profumo di morte preferisco il rancido odore della vita.

-Dopo suoniamo quella eh!

È il ragazzo che ho salutato da poco. Mi guarda e mi fa capire quale vuole suonare.

-Mentre finisce questa, senza fermarci.

Mi piace tantissimo farlo e lui lo sa. Mi piace vedere negli occhi di chi ascolta la sorpresa, mi piace coglierli in quell’attimo in cui non sono pronti a cantare perché non se l’aspettavano. E poi adoro quella canzone, e la adoro per almeno tre motivi. Primo, perché la versione arrangiata e suonata con la PFM, l’ha resa un pezzo progressive rock con un assolo che non ha nulla da invidiare a quello di Tunnel of Love di Mark Knopfler. Secondo perché, citandone un verso, una ragazza mi ha dichiarato il suo amore. O meglio, quello che io credevo fosse amore e che probabilmente non era tale, visto che è svanito poco tempo dopo nascondendosi tra gli stessi versi da cui era saltato fuori: se vorrai scoprire ad uno a uno i miei nascondigli, senza rimpiangere la mia credulità…

E infine, perché in poche e schiette parole riassume il senso profondo della vita di chi vive di musica e suonando la chitarra. Sia esso uno che ne ha fatto una professione oppure uno che non ci guadagnerà mai un euro ma che non può fare a meno di suonare come non può fare a meno di respirare.

Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra.

L’orologio segna l’una e quarantotto minuti. A Genova si sta bene, c’è una piacevole brezza di mare. È venerdì sera, molta gente è ancora in giro. La chitarra è di nuovo nella sua custodia, chiusa dentro. Mi pare però di sentirla ancora suonare, mentre apro la portiera e risalgo in macchina. Torno a casa a dormire qualche ora, prima di fare colazione, fare una doccia veloce e indossare l’ennesima camicia bianca.

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