Mongolia: come una lacrima nel cielo

Mi tolgo le scarpe ed entro. La nostra baracca è divisa a metà: da un lato la sala da pranzo dei bambini, dall’altro lato la nostra stanza. Pianta rettangolare, grande circa sei metri per dieci in cui dovremo abitare in almeno quindici persone.

Strada in Mongolia

Domenica 12 Agosto

Монгоншагау è seduto di fianco a me. Lo sguardo fisso, concentrato sul taccuino che gli ho prestato. Ha deciso di fare un disegno e con l’indice della mano destra e con la penna che tiene in mano ha puntato la nostra baracca. Disegnerò quella, mi ha fatto capire.

Non sono mai stato un disegnatore particolarmente bravo, direi anzi che ho sempre fatto pietà a qualsiasi insegnante o professore. Mi mancano le fondamenta teoriche e pratiche sotto ogni punto di vista, ma guardandolo mentre, chinato sulla pagina del taccuino, traccia le prime linee, concludo che anche lui non è un talento innato.

Ha cominciato con alcune righe verticali corrispondenti ai confini della baracca e, anche se già si notano gravi sproporzioni, continua imperterrito nel completamento dell’opera. Assorto e fiero – e questo ormai l’ho imparato – come soltanto lui sa essere.

Sono da poco passate le 11 e 30, il rumore del motore dell’auto che viene a prenderci comincia a udirsi in lontananza. Lo sgommare delle ruote sulla terra battuta e lo sferragliare della carrozzeria sulle tante irregolarità della strada si fanno a ogni secondo più forti, insieme alla polvere che si avvicina.

Sono gli ultimi istanti prima dell’addio. Prima degli abbracci, delle lacrime, dei sorrisi e dei “tornerò e ci rivedremo”. Tobias, che l’ha già vissuto l’anno scorso, mi ha raccontato tutto ieri pomeriggio.

Sarà dura, ma proprio in questo sta la bellezza di essere qui. Nel caro prezzo da pagare prima di lasciarsi. Che poi, a ben vedere, non è un addio, perché puoi stare sicuro che tornerai. Te lo leggo in faccia che tornerai di nuovo.

Lunedì 30 Luglio

La sveglia suona alle otto in punto. Credo di aver dormito tre ore, quattro al massimo. Il cambio di fuso orario di sei ore in avanti si fa ancora sentire. Sono atterrato a Ulan Bator ieri mattina e, arrivato nella piccola Ginggis Khan guest house, sono andato a dormire. Lì le otto del mattino, per me le due di notte.

Ho dormito tutto il giorno, ho ciondolato tra una stanza e l’altra dopo essermi alzato, cenato in un ristorante poco lontano, ordinato una birra in un pub della zona, tornato a dormire di nuovo. Non ero stanco e non riuscivo a non pensare a ciò che stavo per cominciare, ecco perché Morfeo ha tardato ad arrivare.

Ora mi trovo all’uscita della guest house, in attesa che arrivi la macchina che mi porterà su al campo. Sono insieme a due ragazze, di Taiwan, 20 anni e della Corea del Sud, 28 anni. L’oste mi ha riferito che sull’auto ci sarà anche un altro ragazzo italiano, Salvatore.

Il “Campo”, tutti lo chiamano così, è una struttura che accoglie i bambini durante l’estate. La scheda descrittiva dell’offerta, trovata grazie all’associazione di volontariato Lunaria, recitava più o meno così: “Per due settimane il gruppo di circa quindici volontari avrà a che fare con bambini dai sei ai sedici anni e si occuperà di tenere alcune lezioni di inglese e di intrattenerli con attività sportive e ricreative”.

Perché no? Mi ero detto e avevo immediatamente deciso di inviare la mia candidatura. Candidatura accettata, qualche scambio di e-mail, prenotazione del volo, richiesta del visto ed eccomi qua. Seduto per terra, sul marciapiede di una viuzza a pochi passi da Seoul street, la via della movida mongola.

Nel frattempo è arrivato anche Salvatore e ora siamo in quattro a parlare l’uno con l’altro, raccontandoci dei rispettivi paesi di provenienza, provando a intuire, tra un consiglio sul piatto tradizionale Taiwanese e una spiegazione sugli ultimi sconvolgimenti politici in Korea, il perché ognuno di noi abbia scelto di venire fino a qua.

L’ultimo tratto per arrivare al campo, situato a Khandgait, un paesino al confine di una foresta a circa quaranta chilometri dalla capitale, è una strada sterrata. L’autista è esperto, riesce a tenere i trenta all’ora schivando ogni buca. Le vede in anticipo, le conosce, ne intuisce la profondità e la pericolosità prima che queste si mostrino ai miei occhi.

Non sbaglia una mossa, tiene la destra dove io avrei scartato a sinistra. Accelera dove io avrei frenato e frena dove avrei accelerato. Niente da fare, è sempre lui a fare la scelta giusta. Dopo quasi mezz’ora di polvere, sassi e buche si ferma. Siamo arrivati. Sulla nostra sinistra si vede un campo da calcio e dietro ad esso alcune baracche in legno.

All’inizio il posto sembra desolato, ma non facciamo in tempo a scendere dall’auto che decine di bambini sbucano da ogni angolo e cominciano ad agitare le braccia e a gridare in segno di saluto.

Dall’ingresso principale del campo, che consiste in un cancelletto mezzo rotto che non si riesce più a chiudere interamente, esce una ragazza. Un metro e sessanta di dolcezza, direbbe Ivan Graziani, ma nata anche per comandare. Esile ma proporzionata, indossa un paio di jeans neri e una camicia bordeaux da boscaiolo. Alza lo sguardo, dietro un paio di occhiali dalla montatura nera, ci viene incontro e si presenta.

Hi guys, I am Amraa! As the stone, you know?

Ambra, traduco nella mia testa, che bel nome. È la leader del campo, si occupa di coordinare i ragazzi come me che vengono qui come volontari. Vicino a sé, mentre ci salutava e ci dava le prime indicazioni, aveva tre o quattro ragazzini che le ronzavano intorno correndo allegri, primo segno inconfondibile della sua autorevolezza, evidentemente conquistata con merito.

Ci accompagna alla baracca dove da oggi abiteremo. Essa si trova al centro dell’area, completamente recintata e delimitata a sud dalla strada da cui siamo arrivati e a nord dal bosco. Sopra la porta di ingresso una scritta a mano dice “Kino”, cinema, perché fino a qualche anno fa i bambini la usavano come sala cinema.

Entriamo, e capiamo subito di trovarci in un momento concitato della giornata. È il primo giorno per il nostro gruppo e l’ultimo per il gruppo che ci ha preceduto e il momento del cambio, a quanto ho modo di vedere, genera un intenso lavorio dentro e fuori la stanza.

Mi tolgo le scarpe ed entro. La nostra baracca è divisa a metà: da un lato la sala da pranzo dei bambini, dall’altro lato la nostra stanza. Pianta rettangolare, grande circa sei metri per dieci in cui dovremo abitare in almeno quindici persone.

Sulla sinistra di uno dei due lati corti, la porta; sulla destra della stessa parete, la cucina, composta di due fornelli con bombola a gas appoggiati su un piccolo tavolo sbilenco, una credenza di quattro ripiani in alluminio e tre grandi scatole appoggiate per terra con altrettante scritte colorate a pennarello sui rispettivi coperchi. “Pasta and rice”, “Vegetables”, “Breakfast”.

Il frigorifero arriverà dopodomani! È Amraa che esclama sorridendo quella che dev’essere una grande notizia. Il precedente non funzionava più ed era tanto tempo che lo aspettavamo, continua, mentre si appresta ad accendere un fornello per mettere su il bollitore per il tè.

A un paio di metri dall’angolo cottura che, lo noto soltanto ora, è privo di lavandino, tre tavoli alti circa 60 centimetri, messi in fila uno di fianco all’altro sono circondati da sgabelli proporzionati all’altezza dei tavoli.

Entrambi, tavoli e sedie, sono arancioni e decorati con trame colorate che mi ricordano i Mandala buddisti. Il resto della stanza non ha altro arredamento e, tolte le due colonne in legno che sostengono il fabbricato, sarà occupato dai materassi su cui dormiremo e che ora vedo arrotolati e accostati alle pareti.

Amraa sta sorseggiando il tè e tra un sorso e l’altro ci invita a scegliere il nostro materasso e appoggiare zaini e valigie

Remember no shoes inside the room! And be careful, because here the roof is broken, the rain might pass through and fall on your heads!

Mentre lo dice, indica una porzione del soffitto le cui assi sono effettivamente malandate. Il legno è marcio e i chiodi non tengono più. Se piove, ci si bagna. Però Amraa ride, quindi ridiamo anche noi. Ridono le due ragazze con cui siamo arrivati e ride Salvatore, che da buon Napoletano qual è si tiene stretto il lato positivo di ogni situazione.

Mi verso del tè dal bollitore ancora quasi pieno in una tazza in ceramica rossa e sorrido, guardando il soffitto e assaporando il primo sorso di tè. Esco e mi siedo sui gradini in legno che precedono l’ingresso della stanza. È quasi ora di pranzare, ma prima bisogna aspettare che arrivino tutti i volontari.

Terminato il pranzo, ci sediamo per terra formando un cerchio. Amraa ha esclamato “Meeting!”. Ci spiegherà che cosa andremo a fare per le prossime due settimane, immagino.

– La giornata è divisa in due parti, mattina e pomeriggio: ogni mattina e ogni pomeriggio dopo pranzo ci ritroveremo qua per organizzare le attività della mezza giornata. Saremo divisi in gruppi.

Ogni giorno serviranno quattro persone per il “cooking team”, due persone per il “cleaning team”. La mattina di ogni giorno otto persone saranno il “teaching team”: insegnerete l’inglese ai bambini. Un giorno ai più piccolini, e un giorno ai più grandi.

Le informazioni che ci dà sono molte, ma lei è sintetica e schematica, si fa capire al volo. Non impartisce ordini e nemmeno ci fornisce istruzioni. Ci coinvolge, invitandoci nella sua realtà, una realtà che è abituata a spiegare ciclicamente ogni due settimane per tutta l’estate e che noi non abbiamo mai visto.

Noi meno un ragazzo: si chiama Tobias, ha ventuno anni e – prima di pranzo, durante la presentazione reciproca dei volontari – ha raccontato di essere già stato qui l’anno precedente. Indossa una camicia bianca a righe nere, pantaloni del pigiama a strisce che vanno dal bianco al verde militare coprendo la scala dei verdi e un berretto marrone scuro in testa. Occhi azzurri e un principio di baffi biondi, ancora radi.

– Oggi pomeriggio andremo nel bosco a far legna. È finita, e nelle camerate dei bambini a volte è necessario accendere la stufa, altrimenti di notte hanno freddo. Andremo tutti insieme e porteremo anche qualcuno tra i bambini più grandi, tra quelli che sanno già come si fa. Fra un’ora pronti per andare, ci troviamo all’uscita della baracca.

Siamo diciassette ragazzi, provenienti un po’ da tutto il mondo: Jennie, dalla Corea del Sud, Mori e Mika dal Giappone, Mark da Hong-Kong, sette ragazze venute da Taiwan, Angela dalla Spagna, Tobias dalla Danimarca, Salvatore e Michele da Napoli e Torino, e Capucine da Parigi.

Oltre a noi fanno parte del gruppo Amraa, il capo e due ragazzi che le danno una mano e ci aiutano con la lingua. Sono Ichkaa e Hangai, entrambi sotto i vent’anni.

Ci muoviamo alla volta del bosco, situato poco lontano, insieme a un gruppetto di ragazzini che ci precede. Tante altre volte sono andati a fare legna, conoscono la strada e sanno come comportarsi. I più piccoli hanno undici anni, i più grandi sedici.

Due di loro si portano dietro una bicicletta a cui mancano catena e freni. Si alternano sulla sella: uno siede e l’altro dietro, a spingere. Uno dei due mi chiama e mi fa segno di dargli una mano, la salita comincia a farsi ripida e spingere è diventato faticoso.

– Lasciamola qui e camminiamo, al ritorno la riprenderemo. Glielo dico in inglese, anche se ho l’impressione che non lo capisca fino in fondo. In ogni caso vedo che i due si parlano, sembrano accordarsi. L’altro scende dalla bicicletta, la appoggia sul ciglio della strada e prosegue a piedi.

Lui invece comincia a camminare al mio fianco prendendomi la mano. Si chiama Shak. O meglio, questo è quello che capisco quando glielo chiedo. Perché parecchi giorni dopo, chiedendolo a Hangai, l’aiutante di Amraa, avrei scoperto il suo vero nome: Монгоншагау, di cui “Shak” dev’essere un diminutivo.

Procediamo insieme. Con la bocca scandisco il ritmo dei nostri passi: Pom, po pom, po pom pom pom. A lui piace subito, tanto che si mette a canticchiarla anche lui. Un po’ gli viene da ridere, mentre mi guarda con la bocca gonfia.

È così che continuiamo a camminare, a tempo di marcia e oscillando le nostre braccia unite, fino a raggiungere il punto prestabilito dove recuperare un po’ di legna tra tutti i rami già caduti.

Quando arriviamo, Amraa ci fa segno di fermarci e ci spiega come procedere. Spargersi a destra e a sinistra rispetto al sentiero in cui ci siamo fermati. Un volontario, uno o due bambini insieme a lui. La legna va riportata al centro del sentiero e va accatastata, i bambini ci spiegheranno la loro tecnica.

Due rami piuttosto grandi e resistenti vengono appoggiati paralleli fra loro a una distanza di qualche decina di centimetri. Il resto dei rami, quelli più corti e leggeri, vengono posti sopra, perpendicolari ai primi due, in modo da formare una “pira” comodamente trasportabile anche da due bambini, che prendono in mano i due rami alla base davanti e dietro e li portano a casa senza fatica. Certo, ogni tanto qualche ramo finisce perso durante il tragitto, ma poco importa.

– Ne prendiamo tanti per questo, così qualcuno possiamo anche farlo cadere!

In un’ora di raccolto abbiamo preparato almeno dieci cataste di legna pronta da buttare nelle stufe. Un po’ umida, perché i giorni precedenti ha piovuto molto, ma ci si accontenta e in ogni caso di legna secca non ce n’è.

Si torna giù a coppie, una coppia per ogni catasta. Монгоншагау, che è uno dei più esili, viene esentato dal trasporto perché siamo dispari. Mi guarda e si tocca le spalle. Non capisco. Continua a guardarmi e con le due mani si tocca energicamente le spalle, poi mi indica esclamando qualcosa che non capisco.

Però stavolta ho capito: appoggio la pira per terra, mi chino e passando con la testa fra le sue gambe lo carico sulle mie spalle e riprendo il cammino. Davanti a me, compagno di trasporto, c’è Capucine. Mi vede carico e sorride. Poi si volta e prosegue sul sentiero, ora leggera discesa. Non ho ancora avuto il tempo di scambiare con lei che qualche parola di presentazione, eppure mi pare di conoscerla da sempre.

Porta un fiorellino viola intorno all’orecchio sinistro, regalatole da una ragazzina poco prima, che si intona dolcemente con il foulard rosso intorno al collo e con la salopette di jeans che, seppur nascondendo le sue forme migliori, ne esalta il fascino nella sua integrità, nella sua dedizione durante il lavoro, nel suo impegno di donna giovane, pronta a tendere una mano verso ognuno di questi bambini.

Mercoledì 1 Agosto

– Cooking team! How’s going with dinner?

È Amraa che vuole sapere a che ora sarà pronta la cena. Il “cooking team”, ormai anche noi lo chiamiamo così, è formato da Salvatore, Angela, Mark e Mika. Sono indaffarati tra i tavoli e la cucina, intenti a preparare quello che sembra un compromesso tra la cucina asiatica e quella europea. Noodles conditi con le uniche verdure che riceviamo, zucchine, peperoni e cipolle, per la metà asiatica, e Zarangollo per la metà europea. Spagnola, a essere precisi, perché come mi spiega Angela si tratta di un piatto tipico di Murcia, da dove lei proviene. In buona sostanza, un gustosissimo mischione di melanzane, patate e uova. Salvatore non ha messo alcuna impronta italica nel menù di questa sera, ma ha già dichiarato la sua ferma intenzione di provare a cucinare per le prossime sere la crema pasticciera e, se ci riuscirà, anche una torta. Va sottolineato, a questo proposito, che in cucina non abbiamo un forno.

A cena siamo quindi in venti, quasi tutti riusciamo a sedere intorno ai tre piccoli tavoli, mentre alcuni, che non hanno trovato posto, si siedono per terra, sui materassi che usiamo per dormire. Alcuni hanno il piatto, altri piccole scodelle colorate, perché di piatti non ne abbiamo abbastanza. Tazze invece ce ne sono tante e per tutti. Chi le riempie di acqua, chi di Coca-cola, chi di tè appena bollito. Le bustine non devono essere sprecate, ognuna viene utilizzata almeno due volte, come ci è stato chiesto da Amraa.

Finita la cena, i volontari sono sostanzialmente liberi di godersi la serata. Considerando però che non possiamo uscire dal campo e che il campo si trova al limitare di una foresta, le prospettive si riducono ai più diversi giochi all’interno della stanza. Da quelli di gruppo, fatti apposta per conoscersi meglio, fino ai giochi di carte, passando per Hwa-too, un gioco coreano praticato con quaranta tessere illustrate con disegni complicatissimi da distinguere in cui si dovrebbe cercare di ottenere una serie di combinazioni più o meno vincenti tra le carte che si hanno in mano e quelle che man mano vengono sistemate sul piatto. Non ho capito granché, se non che per vincere serve molta fortuna e che quando si vince bisogna gridare “Hwa-too!”.

Tobias, Capucine ed io usciamo, è il nostro turno, questa sera siamo nel cleaning team e tocca a noi lavare i piatti. Per la verità nel cleaning team eravamo soltanto Tobias ed io, ma Capucine ha deciso di seguirci fuori, dove c’è un rubinetto che spunta dal prato e che rappresenta il lavabo. Fuma tabacco, che si è portata da Parigi, e mentre arrotola una sigaretta iniziamo a parlare. Mi piace vederla ridere, specialmente quando racconta dei suoi studi universitari: qualcosa come “Design per l’ambiente”, che vorrebbe intendere un design applicato alla realizzazione di strutture secondo logiche di sostenibilità ambientale e rispetto per la tradizione del luogo in cui queste vengono costruite. Fa parecchia fatica a spiegarlo in inglese, e quando passa al francese sono io a capire una parola sì e due no. Ma poco importa, perché ormai sono stato conquistato dall’inflessione tipicamente francese che dà alla pronuncia di certe parole inglesi.

Ho anche modo di capire che lei e Tobias si conoscono già, avendo frequentato insieme un altro campo di volontariato nelle due settimane precedenti. Ho anche modo di capire, o perlomeno intuire, che tra loro scorra già molto più che una semplice conoscenza. Che quel fiorellino viola che lei porta all’orecchio non sia soltanto per me, insomma. O forse non è per nessuno dei due, chissà.

Lei spegne la sigaretta e si alza in piedi strofinandosi il sedere per togliersi l’erba umida rimasta appiccicata. Le porgo le scodelle appena lavate, ma quando si china il fiorellino le cade per terra. Se ne accorge, lo raccoglie con cura e lo sistema al suo posto fra i capelli biondi. Poi si volta e con le scodelle in mano si avvia verso la baracca.

Guardo Tobias. Quel fiore non è né per me né per te, sembriamo dirci, ma è per la bambina che glielo ha regalato. Siamo in un campo estivo per bambini orfani, come ci ha spiegato Amraa a cena. Non possiamo dimenticarlo.

Sabato 4 Agosto

Il programma di volontariato, che dura due settimane, prevede anche un fine settimana libero, in cui ai ragazzi non è richiesto di lavorare, ma lo staff organizza per loro una piccola gita turistica. Quest’anno per noi è stata scelta Little Gobi.

Come leggo dal programma scritto a computer su un foglio appeso al frigorifero, Little Gobi è una piccola località a circa trecento chilometri da dove abitiamo, in cui si può ammirare una distesa, seppur limitata, di dune di sabbia. Non è ancora il deserto del Gobi, è soltanto un piccolo iniziale assaggio prima di arrivarci. Little Gobi, appunto.

La gita ha un costo extra di circa ottanta euro, che paghiamo in contanti con la valuta locale. Un pacco di banconote alto così, perché il taglio più grande vale meno di dieci euro e in più ho soltanto tagli piccoli.

Viene a prenderci al campo un ragazzo piuttosto grasso con la faccia simpatica, capelli finissimi e tagliati quasi a zero, e un paio di occhiali scuri. Sarà lui l’autista che ci porterà a Little Gobi con un piccolo autobus che porta una dozzina abbondante di passeggeri e una grande bandiera mongola a coprire il lunotto posteriore. Lui sarà l’autista, mentre un altro uomo, ben più magro e più in là con gli anni, che è rimasto seduto sul sedile di fianco al posto di guida, sarà la riserva. In Mongolia, a quanto pare, è sempre meglio avere due guidatori esperti a bordo.

La prima parte del viaggio avviene su una delle strade principali di tutta la nazione. Circa duecentonovanta chilometri su un asfalto a tratti dissestato che segue fedelmente l’andamento irregolare e ondulatorio delle colline mongole. Le sospensioni dell’autobus sono sparite, immagino, e, me ne pento soltanto ora, ho scelto di sedermi nell’ultima fila, esattamente sopra alle ruote posteriori: ogni buca, ogni sbalzo, è amplificato e per le quasi cinque ore che l’autobus impiega a percorrere il tragitto, testa e sedere oscillano tra soffitto e sedile come in un flipper impazzito quando chi gioca preme le leve compulsivamente.

L’autobus termina la prima parte del viaggio proprio quando il cielo comincia a rannuvolarsi, minacciando pioggia. Si lascia alle spalle la strada asfaltata svoltando in uno stretto sentiero che comprende strada sterrata, prato e, dopo un po’, anche sabbia. Comincia a piovere. Praticamente siamo arrivati a Little Gobi. L’autobus si sta muovendo in quella zona dove gradualmente il prato verde e rigoglioso delle colline lascia spazio alla natura ben più arida e brulla delle dune di sabbia. L’autista si muove a braccio, navigando in un terreno non adatto al transito di un autobus, scegliendo di volta in volta quale sia la direzione migliore da prendere. Non essendoci una strada battuta, ogni mezzo che passa ha dettato una via, quella che a suo avviso era la migliore. Il risultato è un dedalo infinito di tracce, sabbia, prato, buche, discesa, salita, in cui è facile impantanarsi o addirittura ribaltarsi. Dobbiamo raggiungere il campo Gher dove saremo ospitati.

– Non manca molto, siamo quasi arrivati.” È Hangai a parlare. Amraa non ha potuto unirsi a noi, dovendo continuare a portare avanti le attività con i bambini. Sono venuti però Hangai e Ichkaa, che ci faranno da guide e da interpreti.

Il campo comprende circa dieci Gher: alcune più grandi, sono quelle dei proprietari, altre più piccole, destinate ai turisti. Queste ultime sono in grado di ospitare quattro persone. Non più di cinque metri di diametro, i letti sistemati a corona vicino alle pareti. Al centro un tavolo, qualche sgabello e i due pilastri che sostengono la Gher.

– Sono il simbolo di madre e padre, perché così come essi sostengono la famiglia, i due pilastri sostengono la Gher, dove la famiglia abita. Se padre e madre litigano, la Gher crolla!

Ci sistemiamo nei rispettivi letti, in attesa della cena. Dopo la pioggia il cielo è ora terso. Si è aperto di nuovo, regalando una luce, al momento del tramonto, che non ricordo di aver visto da nessun altra parte nel mondo. Un tramonto che provo a fotografare immortalando un cavallo, fermo, in attesa che qualche turista lo monti. Il cavallo è uno dei simboli di questo paese e qui rappresenta una delle fonti di reddito del piccolo villaggio. I turisti che vengono, pagano per fare una breve escursione nei dintorni. Dintorni, che si traducono in uno sconfinato paesaggio collinare che da una parte torna verso il verde rigoglioso e dall’altra si getta verso le prime dune di sabbia.

Per cena la famiglia che ci ospita ci ha preparato una zuppa con carne di pecora e patate, seguita da un assaggio di una bevanda bianca che mi viene presentata come “Fermented horse milk”. Lo assaggio, ma un piccolo sorso è sufficiente. Un gusto acre, una consistenza quasi solida che non è lontana dal formaggio. E poi, mi dicono, è difficilissimo da digerire soprattutto da uno stomaco non abituato. Il capo del villaggio lo beve e mi sorride. Parla soltanto mongolo, ma sembra dire: “Molto buono, dovresti berne ancora.”

Ci alziamo da tavola e ci spostiamo un po’ più a valle, dove Hangai con un altro paio di uomini sta preparando un falò. Falò sotto le stelle, ma questo non era indicato sul foglio scritto a computer e appeso sul frigorifero, è un po’ una sorpresa per tutti. Fa freddo e il vento comincia a soffiare, ma, seduti intorno al fuoco, ci scaldiamo. La luce del se n’è completamente andata, ci vediamo in volto reciprocamente illuminati dalle fiamme.

Sopra di noi un cielo stellato, il più bello che abbia mai visto. Hangai si siede a fianco a me e mi chiede come sto. Sto bene, gli dico, forse non sono mai stato meglio.

Comincia a parlare, raccontandomi la sua vita. Raccontandomi di sua madre, che insegna all’università ma che lui non vede da molti anni ormai. Raccontandomi di suo padre, che se n’è andato quando lui aveva solo due anni. Raccontandomi di suo fratello, che tre anni più tardi si è perso nella foresta fuori dal campo dove lavoriamo. Perso e mai più ritrovato. Hangai è cresciuto lì, lì dove oggi dà una mano come volontario. Lui che oggi sta per compiere diciannove anni ed è riuscito a farcela. Va a scuola, ha degli amici, può immaginarsi un futuro e quando canta ha una voce splendida. Precisa, intensa, dolce senza mai essere stucchevole. Sopra di noi un cielo stellato, il più bello che abbia mai visto. Comincia a cantarmi una sua canzone, una canzone che ha scritto e che parla del senso della vita. Ci dev’essere un senso in questa vita, mi dice. Ci dev’essere per forza.

Mi scopro banale nel gioire per un cielo stellato. Mi scopro superficiale nel raccontarmi di essere triste. Mi scopro impotente, nel non sapere come rispondere a quel che mi sta dicendo. Quello che segue è un lungo abbraccio immaginato. Un lungo abbraccio per te, Hangai, un lungo abbraccio per te, Amraa e un lungo abbraccio per te, Монгоншагау. Qualche giorno dopo, in un pomeriggio dedicato alla realizzazione di braccialetti, lui ne aveva fatti tre per me. Tutti colorati, tutti costruiti su misura per il mio polso. Mi prendeva il polso e cominciava ad attorcigliare i fili secondo un sistema che ancora non sono riuscito a capire con precisione. Un sistema che però non dev’essere molto resistente, perché dopo poche settimane i braccialetti si sono aperti. Oggi non li porto più ai polsi, ma li conservo con cura in un cassetto. Ogni tanto lo apro e sbircio e quando sbircio rivedo ancora un cielo stellato sopra di noi. Il più bello che abbia mai visto.