L’umano errare di Emilio Salgari

L’esploratore virtuale che viaggiava nella fantasia.

“Una volta c’era un signore, uno strano viaggiatore
che viaggiava in macchina… da scrivere!
Che c’è di strano? Non a tutti piace il treno o l’aeroplano.
Come faceva? Così: batteva sul tastino della ‘T’ ed eccolo a Torino.
Toccando la zeta sbarcava a Gaeta.
Per andare nel Perù pigiava la lettera ‘u’…”

(da Strani viaggiatori di Gianni Rodari)

Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”. Così rispondeva, quasi piccato e provocatorio Emilio Salgari (1862-1911) a quanti gli chiedevano come facesse a raccontare storie ambientate in luoghi che non aveva mai visto.

Era esasperato da quelle domande e in alcune interviste arrivava anche a confermare viaggi completamente inventati. “Ho visto il mondo … attraversato mari in burrasca su velieri diretti a Ceylon e allo Stretto di Bering”.

Non erano “le navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione” o “raggi B che balenavano nel buio alle porte di Tannhauser” (dal monologo del replicante di Blade Runner: “Ho visto cose che voi umani…”) ma poco ci mancava.

E poi aveva il vezzo di farsi chiamare Capitano, anche se il diploma marittimo di Gran Cabotaggio non l’ottenne mai, nonostante l’inconcludente partecipazione, nel biennio 1878-79, ai corsi del Regio istituto tecnico e nautico Paolo Sarpi di Venezia. L’unica sua esperienza da “lupo di mare” (e forse solo come passeggero) fu sull’Italia Una, una nave da carico che faceva la spola tra Venezia, la Dalmazia e Brindisi.

Tra fine Ottocento e inizio Novecento Salgari era un autore di successo, vendeva migliaia di libri, stampati dalle case editrici più importanti dell’epoca, ma non aveva una vita facile e morì a soli 48 anni quasi in miseria. Era popolare e riconosciuto anche dalle istituzioni (nel 1897 la regina Margherita di Savoia gli conferì la Croce di Gran Cavaliere, “perché sa istruire dilettando”), ma veniva continuamente stroncato dalla critica letteraria: a Benedetto Croce non piaceva il suo «scriver sciatto».

Nella sua sconfinata fantasia forse non avrebbe immaginato le lodi di intellettuali a noi contemporanei come Eco e Magris e che in America Latina sarebbe diventato un’autentica leggenda e apprezzato da scrittori e poeti quali Jorge Luis Borges, i premi Nobel Octavio Paz e Gabriel Marquez, Isabel Allende e Luis Sepúlveda; che Paco Ignacio Taibo II avrebbe onorato il suo mito con il romanzo Ritornano le Tigri della Malesia (Ed. Feltrinelli 2011), un sequel scritto in stile rigorosamente salgariano e che uno dei maggiori ammiratori dei suoi libri, Ernesto Che Guevara, ne avrebbe letti ben 62.

Non tanto perché contenessero vaghi riferimenti sociali ma per lo spirito di avventura e per i suoi personaggi eroici e generosi.

Salgari era uno scrittore infaticabile e prolifico. In meno di trent’anni di attività sfornò 84 romanzi e 150 tra racconti, novelle e articoli vari (spesso firmati con pseudonimi), creando figure mitiche e indimenticabili come Sandokan, Capitan Tempesta, il Corsaro nero e sua figlia Jolanda.

Scriveva semplice, con uno stile frettoloso e per questo poco curato, che lui attribuiva alle pressioni esercitate dalle case editrici: “Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere”,

A volte fin troppo dispersivo e didascalico nel raccontare luoghi, paesaggi o traversate in mare, riusciva ad essere incisivo e incalzante nei dialoghi, brutale e cruento nella descrizione di alcune scene d’azione (quasi un anticipatore del genere pulp).

Utilizzava un linguaggio originale, sperimentale, ricco di neologismi e giochi di parole. Per attirare la curiosità dei lettori ricercava (e a volte inventava) nomi insoliti e strani per i luoghi e per le persone, utilizzando trame ben costruite, a volte essenziali altre complicate, dove irrompevano colpi di scena o situazioni impreviste.

Esploratore virtuale di luoghi lontani

Le avventure salgariane sono sempre accompagnate da precise descrizioni geografiche e da attente osservazioni scientifiche. Sono ambientate in terre lontane, sconosciute (dal Borneo all’India: dal Polo Nord all’Antartide, dalla Siberia al deserto del Sahara, dall’Egitto al Mare dei Caraibi, dalle praterie americane alla Cina), angoli di un mondo fotografati dalla sua fantasia.

Tutti rappresentati con immagini reali e verosimili, ricavate non da esperienze personali ma da accurate letture e maniacali ricerche nelle biblioteche, che frequentava assiduamente sfogliando riviste di viaggi e resoconti di veri esploratori.

Sicuramente aveva approfondito le opere di Odoardo Beccari (1843-1920), il botanico fiorentino che aveva viaggiato per anni in estremo oriente pubblicando le sue indagini naturalistiche in Malesia e in Borneo, e quelle del cartografo nautico piemontese Giacomo Bove (1852-1887), vero esploratore e vero capitano, che in nave aveva attraversato il mitico Passaggio a Nord-Ovest dall’Atlantico al Pacifico, nel mar Glaciale artico, lo stretto di Suez e i mari dell’India, del Giappone e della Patagonia.

Scenari del selvaggio farwest li aveva invece immaginati nell’aprile del 1890 assistendo allo spettacolo Wild west show di Buffalo Bill (William Frederick Cody, 1846-1917), che aveva portato il suo circo con centinaia di cavalli e ottocento comparse (indiani, cowboys e leggende come Toro seduto) in giro per l’Europa. 

Lo sfondo non erano le sconfinate praterie americane ma l’interno dell’Arena di Verona dove un entusiasta Salgari, allora giovane cronista di un quotidiano locale, partecipò all’evento come passeggero volontario nella rappresentazione di un assalto alla diligenza da parte di indiani.

Era un lettore appassionato di Jules Verne (1828-1905), di Robert Louis Stevenson (1850-1894) e di altri narratori di viaggi (vissuti e non immaginati o virtuali) a lui contemporanei come Jack London (1876-1916), Joseph Conrad (1857-1924) e Rudyard Kipling (1865-1936).

Di quest’ultimo non apprezzava i toni al limite del razzismo. Per Salgari la superiorità dell’uomo bianco sulle altre etnie era tutta da dimostrare. I suoi eroi sono quasi sempre indigeni; le amicizie, gli amori e le unioni multirazziali e se doveva schierarsi lo faceva sempre dalla parte degli oppressi: con gli indiani e i malesi contro gli inglesi, con i pirati caraibici contro gli spagnoli, con gli indocinesi contro i francesi o con i russi contro lo zar.

Politicamente scorretto, rispetto alle opinioni dell’epoca, anche nei modelli femminili che sono spesso intrepide eroine e mai angeli del focolare domestico.Sono gli anni del colonialismo, la Francia conquista la Tunisia e l’Indocina, l’Inghilterra allarga il proprio impero in Oriente, la Spagna e gli Stati uniti si affrontano per il domino su Cuba e l’Italia si prende l’Eritrea.

In Europa l’esotismo è di moda, le antiche tradizioni orientali vengono viste come curiose modernità, il progresso dell’uomo bianco diventa civiltà da esportare, l’aggressione una scomoda necessità, il nazionalismo un dovere e tutti si sentivano tranquillamente razzisti. Con il suo anticolonialismo alla buona, i suoi eroi romantici alla ricerca di giustizia e libertà, Salgari andava decisamente controcorrente, forse complicandosi una vita già travagliata dalle vicende familiari. Fino ad interromperla come l’avrebbe fatto uno dei suoi personaggi inventati. Sopra le righe.

Vi saluto spezzando la penna

Salgari era nato nel 1862 a Verona ed era cresciuto nelle colline del Valpolicella. Basso e tarchiato, baffi arricciati, appassionato di ciclismo e di scherma, pessimo scolaro e lettore onnivoro, a vent’anni, dopo la delusione della mancata carriera in marina, inizia a lavorare come giornalista per la Nuova Arena di Verona e insegue sogni di rivincita scrivendo romanzi d’appendice.

S’innamora e sposa l’attrice teatrale Ida Peruzzi, da cui avrà quattro figli che chiamerà con nomi esotici (Fatima, Nadir, Romero e Omar). Lavora per vari editori e si trasferisce a Torino. Vende e guadagna molto ma non è un buon amministratore. Le spese familiari crescono, per l’educazione dei figli, per la malattia che in pochi anni porterà la moglie in manicomio e lui intensifica la produzione.

Di giorno in biblioteca, la notte alla scrivania tra il fumo delle cento sigarette quotidiane e innumerevoli bicchieri di marsala.

La mattina di martedì 25 aprile del 1911, mette in tasca il rasoio da barba e prende il solito tram che lo portava alla Biblioteca civica centrale di Torino. Scende in corso Casale e si incammina per il sentiero che attraversando il bosco porta in collina.

Al primo angolo nascosto si ferma, si inginocchia guardando il sole nascente (come in un rituale dei samurai giapponesi) e si taglia il ventre e la gola.

Le lettere lasciate

Nello studio a casa aveva lasciato tre lettere.  

Ai direttori dei giornali torinesi presso cui aveva lavorato: “Vinto dai dispiaceri d’ogni sorta, ridotto alla miseria malgrado l’enorme mole di lavoro, con la moglie pazza all’ospedale, alla quale non posso pagare la pensione, mi sopprimo… Li prego signori direttori, di aprire una sottoscrizione per togliere dalla miseria i miei quattro figli e poter passare la pensione a mia moglie finché rimarrà all’ospedale…”

Ai figli: “Sono ormai un vinto, la pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni dei miei ammiratori che per tanti anni ho divertiti ed istruiti provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di 600 lire … Fatemi seppellire per carità essendo completamente rovinato. Mantenetevi buoni ed onesti, e pensate appena potrete ad aiutare vostra madre. Vi bacio tutti col cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre…” 

E, scritta con rabbia, agli editori: “A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle, mantenendo me e la famiglia mia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna”.

Ai funerali parteciperanno tanti ragazzi e gente comune. Nessun reale o rappresentante delle istituzioni, presenti quel giorno a Torino per le celebrazioni dei 50 anni dell’Unità d’Italia.

Come se il suicidio dello scrittore fosse un affare di famiglia. Sicuramente era una tragica tradizione familiare. Nel 1889 si era suicidato il padre di Salgari e analogo gesto lo compiranno i figli: Romero, nel 1931 e Omar, nel 1963.

Immagine di copertina: Il libraio