Benares: dialettica delle emozioni

L’accento indiano è, come al solito, caldo, squillante e inconfondibile. Noto però che gli abitanti chiamano la loro città “Varanasi”, preferiscono evitare Benares, il nome dato dagli Inglesi, che non riuscivano a pronunciare Varanasi.

Motorino e mucca su una strada di Benares

Sulla città di Benares, sulle sue tradizioni, sulle sue annose, assurde e affascinanti contraddizioni, si sono già spesi in molti, compresi Tiziano Terzani e Herman Hesse, con parole pesate a tradurre i loro pensieri, le loro impressioni, le loro avventure.

Avventure certamente più indelebili e degne di essere raccontate di tutte quelle che un giovane sospeso tra una noiosa esistenza piccolo borghese e un anelito all’anacoretismo come all’unica via per la salvezza, potrà mai vivere in una vita intera.

Nonostante questo, i rampolli della moderna società occidentale, anche oggi continuano a voler uscire dal loro guscio rassicurante per spostarsi verso Est: verso quella parte di mondo che da Marco Polo e Alessandro Magno ha sempre esercitato un fascino incredibile, perlomeno su una parte della popolazione.

Ecco perché il 26 Ottobre di qualche anno fa, alle 4:17 del mattino, uno di quei giovani quasi borghesi e quasi eremiti si trovava al terzo piano di un vagone letto del treno che da Ghorakpur andava a Benares.

L’arrivo

La sera prima, una volta coricato nel letto più alto dei tre presenti, non avevo messo la sveglia. Quando arriverà, me ne accorgerò sentendone i rumori e mi sveglierò. Ho il sonno parecchio leggero. Qualche ora dopo una strana forma di energia mi sveglia. Dovremmo arrivare a minuti, infatti, con tutta calma, comincio a prepararmi.

Un attimo dopo, alzando lo sguardo verso il finestrino mi accorgo che il treno è fermo. Fuori è buio, non ho idea di dove siamo. Chiedo.

– Siamo a Benares, ma il treno ripartirà fra poco, continua verso Calcutta.

Una scoperta del genere mi strappa definitivamente dal torpore in cui mi trovo, capisco che devo vestirmi, prendere tutto e scendere dal treno e ho pochissimo tempo per farlo. Una volta giù, nel guardare il treno ripartire, provo una lieve sensazione di dispiacere nel considerare che forse, scendendo dal treno, ho perso un’opportunità. Un’opportunità di continuare nel viaggio senza conoscere la direzione.

Calcutta non era la destinazione di quel treno, ma così in quel momento mi era sembrato di capire dall’uomo che mi aveva rivolto la parola.

La stazione di Benares, anche all’alba è piena di persone. Giovani studenti e non, adulti lavoratori e non, vecchi, bambini. C’è confusione, non agitazione. Pochi sembrano, ai miei occhi, avere qualcosa da fare, la maggioranza di loro è sdraiata, in attesa. Alcuni sulle poche panchine disponibili, molti, uomini e donne, per terra. I bambini a volte sono nudi e camminano avanti e indietro. Non so cosa aspettano, ma so che qui, e non solo in questa città, passano le giornate ad aspettare.

Non conoscono la noia, per questo li ammiro, perché sono in grado di rimanere nella stessa posizione, senza muoversi o fiatare, per intere ore. Le posizioni che noto sono due: sdraiati, con un braccio piegato sotto la testa a fare da cuscino, oppure accucciati, le piante dei piedi ben salde a terra e braccia appoggiate sulle ginocchia.

Li ammiro anche perché in quelle posizioni non saprei resistere cinque minuti.

Qualche giorno dopo avrei scoperto che nelle stazioni non tutti aspettano un treno: per molti di loro, che non hanno una casa, la stazione è il luogo in cui vivere.

Esco dalla stazione, ancora nessuna traccia di luce. Mi dirigo nella zona dei tuk tuk, i taxi a tre ruote, tipici di quei luoghi; tutti i tassisti mi sorridono, facendomi cenno di salire. Un po’ a caso, ne scelgo uno. Forse scelgo il tassista con la faccia più simpatica.

Welcome to Varanasi, where are you from?

L’accento indiano è, come al solito, caldo, squillante e inconfondibile. Noto però che gli abitanti chiamano la loro città “Varanasi”, preferiscono evitare Benares, il nome dato dagli Inglesi, che non riuscivano a pronunciare Varanasi.

– Si chiama Varanasi perché la città è costruita tra due piccoli fiumi, la Varuna che scorre a Nord e l’Assi, a Sud. Varuna e Assi, Varanasi! Oppure, se preferisci, la città al tempo dei Veda aveva anche un altro nome: Kashi.

Nel frattempo il tassista ha raggiungo la zona centrale della città, vicino al fiume Gange. Lì però lo chiamano Ganga, la considerano una femmina. È arrivato in centro, ma non ha idea di dove si trovi l’ostello dove vorrei andare.

Naturalmente, prova a dissimulare sicurezza e totale controllo della situazione, non fermandosi e continuando a girare, più o meno a cerchio. Quando me ne accorgo – e ci metto un po’ visto che fuori è ancora buio e i fari sono quasi assenti – capisce che tanto può anche fermarsi e chiedere informazioni. Da quel momento si susseguono alcuni individui che si prodigano subito per dargli e darmi una mano. All’inizio, tutti sembrano sapere dov’è il Blox Hostel, ma poi ognuno di loro si rivela inutile.

È dopo un po’ che arriva un ragazzo che dice di conoscerlo e per fortuna lo conosce veramente. Lo conosce perché ci lavora, mica per altro.

Scendo dal tuk tuk, pago e mi avvio, guidato dal ragazzo che sa dove andare. Porta dei sandali con il velcro, più grandi rispetto ai suoi piedi, ha diciotto anni e si chiama Ashish. Porta un tatuaggio sull’avambraccio destro che riporta, nell’alfabeto che conosco, il suo nome. Mi chiede da dove vengo e quando glielo dico il suo sguardo cambia. Non capisco se provi felicità, tristezza, orgoglio o vergogna; da un lato sembra avere un’idea di dove si trovi e cosa sia l’Italia, ma dall’altro lato sembra averne un’immagine decisamente vaga e sfumata.

In ogni caso, si limita a farfugliare un Very nice place un po’ impacciato. Continua a camminare ed io lo seguo. Quando cammina, tra le vie della sua città, è sicuro e, questa volta sì, orgoglioso. Orgoglioso di una città in cui lui è nato e che conosce fin negli angoli più segreti e nascosti.

Orgoglioso di una città che io, come molti altri, ho deciso di visitare, arrivando dall’altra parte del mondo e potendoci restare un paio di settimane. Cosa si può imparare di una città intera in due settimane? Ho vissuto per ventiquattro anni a Milano eppure mi sembra di non conoscerla ancora.

Finalmente arriviamo davanti all’ostello, Ashish mi precede e mi accompagna nella stanza. Non c’è un oste, le porte sono tutte aperte e i pochi ospiti stanno ancora dormendo. Ringrazio Ashish e mi stendo sul letto, pronto a recuperare il sonno che ho perso in treno.

– Good night, sir.

Mi saluta con rispetto, quasi con deferenza e di questo un po’ mi vergogno, perché mi attribuisce un importanza che non ho e non voglio e si attribuisce una subalternità che non merita. Perché anche se ti conosco da pochi minuti, Ashish, mi ricorderò di te.

Vado a dormire dunque, in un letto piuttosto scomodo e in una città che non conosco, ma che già mi ha fatto un regalo. Sono appena passate le 6:00, fuori il cielo comincia a schiarire e gli abitanti sono già per le strade: vanno verso la Ganga, per le abluzioni e per la prima preghiera della giornata.

A spasso tra i Ghat

Il sole è ormai alto nel cielo e dalla piccola finestra socchiusa della stanza in cui mi trovo lo sento penetrare, caldo e invadente. Ottobre sta finendo, ma a questa latitudine l’afa è ancora forte e costante, a tutte le ore del giorno.

Oltre all’aspetto naturale c’è però il contributo dell’uomo: l’inquinamento che il capitalismo indiano, che ancora non ha raggiunto la sua fase ecologista ed ecosostenibile, ha prodotto in questi decenni è enorme: lo si vede guardando il cielo e la cappa che lo sbiadisce e ne offusca i colori.

Sono quasi le nove del mattino quando apro gli occhi e mi alzo, pronto a gettarmi per le strade della città. L’ostello si trova nell’estremo sud, nella zona dell’Assi Ghat.

I Ghat, quelle grandi scalinate che dalla città scendono, più o meno ripide e più o meno ampie a seconda dei punti, verso il fiume. Sono presenti lungo tutta la costa e in questo periodo dell’anno sono quasi interamente ricoperti di fango, perché la Ganga, che attraversa la città scorrendo da Sud a Nord, ha appena terminato la fase di piena e si è lasciata alle spalle uno strato di fango, qui ancora umido, là già secco, che i cittadini impiegheranno settimane per rimuovere interamente.

Per ricacciarlo nel fiume, usano pompe ad acqua – probabilmente vecchie quanto la dominazione inglese – tanto enormi e rumorose quanto inefficaci. Si sa però, loro non hanno fretta e prima o poi ce la faranno, anche questa volta.

La via che porta verso l’Assi Ghat è affollata di turisti, cittadini, Sadhu e animali. Mi fermo in un piccolo chiosco (sicuramente esisterà un nome più appropriato per indicare quelle minuscole attività all’aperto che servono da mangiare e affollano le strade della città) dove prendo un chai, la celebre varietà di tè che da queste parti viene infusa e bevuta assieme al latte.

Pago cinque rupie, quasi niente, e mi viene porto un piccolo bicchierino di terracotta. Il fatto mi stupisce inizialmente, ma resto ancor più sbalordito nel vedere che tutti, ragazzini e adulti, una volta terminato di bere, buttano per terra il bicchiere in terracotta. Ad alta voce mi domando come mai.

– È terracotta, non inquina. La restituiamo alla natura.

E noi, penso, continuiamo con la plastica: la comoda, igienica, duttile, efficace, schifosa plastica.

È arrivata anche in India, ma incontrando una popolazione che non butta, ma restituisce alla terra ciò che avanza, si è trasformata ben presto in concime per vacche e tori che, essendo abituati a trovare per terra il cibo, ingeriscono anche questo comodo, igienico, duttile, efficace, schifoso derivato del petrolio. Mentre rifletto, assaporo il Chai, appoggiando piano le labbra sulla terracotta e godendo del contatto. Resto seduto dunque, le labbra in estasi, a guardare la via.

Due turisti, o forse sarebbe più rispettoso chiamarli viaggiatori, camminano dal fiume verso l’interno del quartiere. Lui porta un paio di pantaloni corti, infradito e una di quelle camicie colorate a righe, molto leggere e portate un po’ più larghe del solito. Lei indossa una canottiera bianca e un paio di pantaloni di seta leggera e colorata, probabilmente acquistati dove lui ha comprato la camicia. Non arrivo a sentirli parlare, ma sembrano nord-europei.

Nel senso opposto due ragazzi indiani camminano alla svelta, mentre parlano e ridono. Nonostante il caldo, che in questa parte dell’India si accompagna spesso a un alto tasso di umidità, entrambi indossano pesanti jeans lunghi dal chiaro richiamo occidentale e un paio di scarpe da ginnastica, anch’esse di una qualche marca americana molto conosciuta.

Sopra, la Kurta, la tipica camicia indiana che scende fino alle cosce, con due spaccature nel tessuto ai lati. Poco più indietro, cammina quello che, a quanto ho capito, è chiamato Sadhu: si tratterebbe di un “saggio”, di un uomo che ha rinunciato alla vita in società in favore dell’ascesi e dell’abbandono, per liberarsi dalle illusioni e concludere il ciclo delle reincarnazioni, innalzandosi fino al divino.

Mi scopro a cercare gli occhi giusti per guardarli, le parole giuste per descriverli, le mani giuste per immaginare di toccarli. Ma non c’è occhio che non sia invadente, non c’è parola che non sia pedestre e non c’è mano che non sia volgare. Insomma, sono quelli uomini che portano la barba lunga e si vestono di bianco o di arancione, a seconda della setta cui appartengono. Il loro sguardo è di un’intensità quasi insopportabile e difficile da sostenere per più di alcuni secondi.

La calma con cui si muovono mi ammalia. Mi ammalia perché non è la calma che conosciamo: non è serenità, non tranquillità. È bensì la calma spirituale: essi sono sulla terra soltanto perché ci appoggiano i piedi, ma in realtà esistono altrove, vivono in una dimensione lontana, irraggiungibile ai più.

Molti li fotografano, dando poi loro qualche moneta, forse nel vano tentativo di espiare un senso di colpa?

C’è poi una seconda popolazione che abita la città e questa è composta dagli animali. Cani randagi, tori e vacche principalmente. Le vacche, si dice, non appartengono a nessuno: sono di Varanasi, della città. Sono tantissime: in ogni via, anche nel vicolo più stretto e solitario, ce n’è una.

Sono, a dispetto di quel che si potrebbe pensare, mansuete come per noi è difficile immaginare. A volte stanno ferme immobili o camminano lentamente. Altre volte si accomodano al centro della via, fungendo da spartitraffico, oppure si fermano a mangiare quegli avanzi che trovano per terra.

È qui che a volte, ormai, capita che mangino della plastica.

Sono abituate a vivere in città, a stare a contatto con il caos e con le persone; la presenza degli esseri umani non fa loro nessun effetto. Se sfiorate, restano com’erano. Del popolo indiano, infine, devono aver ereditato la capacità di stare ore e ore senza apparentemente fare niente.

Quando poi sentono che per loro è giunto il momento, si avviano verso la Ganga, dove per una vita si sono immerse a rinfrescarsi e riposare, per l’ultima immersione. E lì si lasciano andare, trascinate dalla lieve corrente.

Sono parte della città, e Varanasi non sarebbe la stessa senza di loro. Penso questo, mentre mi alzo per andare a buttare il bicchiere di terracotta, dopo aver finito il Chai. Poi mi ricordo e lascio cadere la terracotta per terra, vicino alle altre. Lì da dove è venuta, la aiuto a tornare.

Come sir, come in to see our shop!

È la voce di un ragazzo, che mi ha visto, ha subito capito che sono un turista, ha poi notato che non ero diretto da nessuna parte e ne ha quindi approfittato.

Welcome, sir! Where are you from?

Alla mia risposta, reagisce più o meno come aveva reagito il mio amico Ashish. L’Italia ha quel suo fascino misterioso a spiegarsi. Il solo nome, in giro per il mondo, la precede.

Pochi ne hanno un’idea precisa, molti indiani mi dicono di non sapere nemmeno dove sia precisamente. Però è l’Italia, sembrano dire tutti. Dev’essere semplicemente il fascino di ciò che è sconosciuto, visto che per molti italiani l’India provoca un effetto molto simile. Però è l’India. C’è una verità? È quello che mi domando, togliendomi le infradito prima di entrare nel negozio.

Il negozio consiste in una stanza quadrata larga e profonda meno di tre metri; su tutti i lati escluso quello di ingresso, mensole sbilenche ospitano pile pericolanti di tessuti in vendita; per terra un grande materasso bianco ricopre interamente i circa nove metri quadrati di pavimento.

– You Italian? I like Italy: Roberto Benigni, Nanni Moretti, La stanza del figlio!

A parlare è il proprietario del negozio, Santosh. Ha una barba lunga di un nero prossimo a incanutirsi e sopra una pancia piuttosto generosa indossa una kurta bianca.

Piedi nudi, quasi un anello per dito – anelli che, ai miei occhi di perfetto ignorante in materia di pietre preziose, sembrano tutto sommato pregiati – e fra le mani un bastoncino di incenso. Lo accende e lo fa volteggiare lentamente davanti a sé, per distribuirne meglio l’aroma in tutta la stanza.

Evidentemente è un appassionato di cinema, penso. Un cinefilo che ha deciso di spingersi ben oltre a Bollywood, evidentemente. Parliamo di quanto sia bravo Nanni Moretti e di quanto sia bello “La stanza del figlio” – film che non ho visto, ma questo non posso certo dirglielo – e di quanto mi sembri strano che lui conosca tutto questo.

Poi, terminato il seminario italo-indiano sulle reciproche influenze nel mondo del cinema, mi invita ad accomodarmi e comincia a mostrarmi tutto quello che il suo piccolo ma stracolmo negozio offre.

Santosh e il suo aiutante, un ragazzo sulla trentina, vendono seta, Pashmina, lana di yak e mille altri tessuti e con una pazienza, un entusiasmo e uno zelo di cui ancora ho ammirazione, mi presentano decine e decine di proposte: sciarpe, kurta, teli e via dicendo.

A ogni nuova presentazione si dilungano in appassionate introduzioni decantandone le squisite doti di morbidezza e invitandomi a tastarle con le mie stesse mani. Io, che fatico a distinguere persino il cotone dal Poliestere, non posso che abbandonarmi a una totale improvvisazione rispetto ai commenti e agli apprezzamenti che il ragazzo e il proprietario si aspettano.

Rifiuto ogni proposta, più che altro perché non ho quella moglie che loro sono convinti io non possa non avere e per la quale mi esortano a comprare una splendida e morbidissima sciarpa di Pashmina lilla e verde pistacchio.

Non compro nulla quindi e un po’ mi dispiace, il loro impegno è stato encomiabile. Nel salutarli, prometto loro che tornerò sicuramente a trovarli; d’altronde abito a due passi e non ho nient’altro da fare.

E soprattutto, vale sempre la pena di ascoltare un uomo che dietro al fumo dell’incenso passa le giornate tessendo le lodi della seta e dei registi italiani.

La mattina dopo decido di dirigermi verso Manikarnika Ghat, il luogo davanti al fiume dove, tradizionalmente, vengono cremati i morti. È uno dei luoghi più sacri della città e in generale, vista la sua funzione, di tutta l’India.

Se la morte è un viatico attraverso il quale ogni uomo può, in teoria, uscire dalla Terra e conquistare la salvezza, la Moksha, Manikarnika Ghat è uno dei luoghi più rispettati dove essere cremati. In particolare perché è a Varanasi e, come mi avrebbe poi detto il ragazzo del negozio, l’aspirazione più grande di molti indiani è morire a Varanasi.

Per arrivarci basta seguire il fiume e cercare il fumo che, costantemente, sale al cielo da quella zona. Non so quante persone vengano cremate ogni giorno, ma so che il processo è praticamente ininterrotto. C’è sempre qualcuno da cremare e gli addetti alla cremazione, che appartengono all’ultima casta, a quella degli intoccabili, i Dalit, sono sempre all’opera: caricano i corpi sulle pire, li cospargono con eventuali oli che i parenti delle famiglie più ricche possono chiedere che vengano utilizzati durante la cremazione, recuperano nuova legna da ardere.

Un ragazzo che incontro sul posto inizia a illustrarmi la lunga procedura di cremazione, da quando il corpo viene immerso per l’ultima volta nella Ganga, fino a quando sulla pira non restano che le sue ceneri.

Mi accompagna in un punto rialzato rispetto alla zona di cremazione, da dove è possibile osservare meglio ma da dove arriva, complice il vento, tutto il fumo. La zona è suddivisa in base alle caste, perché ognuno, a seconda della casta a cui appartiene, ha diritto a essere cremato in una specifica zona del Ghat.

Il suo racconto non si interrompe, ma sono io che spesso non lo ascolto. D’altronde, ho davanti ai miei occhi membra di uomini che lentamente inceneriscono.

Ogni popolo ha la propria tradizione e porta avanti il proprio rapporto con i morti, che, in definitiva, è una conseguenza della visione che quel popolo ha del rapporto con la morte.

Questo della cremazione ha un sapore antichissimo e, per quanto sia crudo, specialmente se osservato dal vivo e specialmente se si riesce a considerare che a pochi passi da un qualsiasi turista probabilmente ci sono i familiari del morto, esercita un fascino amaro da digerire e non può che farmi riflettere.

Riflettere sulla morte, sul valore che siamo in grado di darle. Sulla vita, e sul valore che, sapendo che esiste la morte, siamo in grado di darle. E riflettere sulla vita degli altri, e se sia educato o meno spiarne la fine con il solo accademico scopo di conoscere le altrui abitudini e tradizioni.

Il ragazzo sta continuando a raccontare e mi dice che i bambini e le donne incinte non vengono cremate ma direttamente gettate nel fiume.

Ecco, penso: è veramente più assurda una tradizione di questo tipo rispetto a un’altra che invece ingabbia i morti in orrende bare di legno incastrate tre metri sotto terra, nel vano tentativo forse di non farli scappare via?

Ho forti dubbi, e con forti dubbi mi avvio lentamente verso casa, lasciandomi alle spalle un odore acre, un fumo denso e il ragazzo-guida, cui ho dato un centinaio di rupie come segno di riconoscenza per le illustrazioni ricevute. Una specie di biglietto per lo spettacolo della morte. Tornando verso l’ostello dove abito mi fermo da Santosh e dal suo aiutante.

– Hi Davide, come here!

È lui, che da lontano mi ha riconosciuto e mi ha salutato subito. Mi fermo davanti al negozio e mi accomodo sulla sedia di plastica che ossequiosamente è andato a prendere per me. È contento, perché oggi gli affari vanno bene: è il periodo del Dwali festival, che cade intorno ai primi giorni di Novembre, è si celebra il ritorno in città di Rama dopo quattordici anni trascorsi nella foresta, e quindi il trionfo del bene sul male.

Non ho capito molto, ma d’altronde Santosh, da buon commerciante, aveva sinteticamente detto: “Dwali è la festa dei soldi, ognuno di noi deve regalare un vestito nuovo”.  È stato quando gli ho chiesto maggiori chiarimenti e se ci fosse una qualche leggenda dietro che lui ha spiccicato alcune informazioni in più.

Di fatto, a tutti i commercianti interessa soltanto che in quei giorni di festa la gente sia più propensa all’acquisto. È per questo che, in un impeto di condivisione delle emozioni e delle tradizioni, scelgo una kurta bordeaux e la compro. Forse in realtà, a ben pensarci, la kurta l’ho comprata più per una specie di senso di riconoscenza nei confronti di Santosh e del suo aiutante, che sono stati così ospitali e pazienti in questi giorni.

Il giorno dopo il viaggio verso l’aeroporto lo faccio in tuk tuk. A caricarmi sul suo bolide è un uomo né buddista né induista bensì Sikh, un’altra religione piuttosto diffusa, i cui “fondatori”, sono alcuni Guru, vissuti in

India tra il XV e il XVII. La formula di saluto usata da tutti i Sikh, avevo scoperto qualche giorno prima è “Sat Sri Akaal”, che più o meno significa “Rendo onore alla verità di Dio”.

Salgo sul tuk tuk e l’uomo, dopo avermi informato che la corsa costerà 20 rupie (praticamente nulla, per me) mi chiede da dove vengo.

– Italy! I know Italy: Bongiorno, come sta!”

Sentendolo sorrido e insieme cominciamo a parlare in italiano: io gli dico parole semplici e lui prova a ripeterle quando non le conosce, oppure le grida, gonfio di orgoglio, quando le conosce!

Non so perché sappia qualche parola in italiano, ma d’altronde, non è importante saperlo. Il viaggio è piuttosto lungo, ma le parole sono tante e lui, a cui non ho chiesto il nome, non si stanca mai. Ne vuole imparare di nuove per poi ripeterle ai prossimi clienti.

– “Domani! Ragazzo! Aeroporto!”

Devo dire che ha una discreta pronuncia, il tassista Sikh. Arrivati all’aeroporto mi aiuta a scaricare lo zaino e poi mi ringrazia per avergli insegnato così tante parole nuove.

Lo saluto porgendogli le venti rupie ed esclamando la formula di saluto che avevo da poco imparato, a lui tanto cara: “Sat Sri Akaal”. In un attimo, lo vedo piegarsi in un sorriso commosso: mi restituisce i soldi, prende le mie mani fra le sue e in italiano mi dice: “Grazie, niente rupie.”

Tutto il resto è la storia di una lacrima che scende dagli occhi e che ancora oggi, a distanza di anni, mi graffia dolcemente le pareti del cuore.