Gli aggrottati di Calascibetta

Viaggio al centro della Sicilia, tra i vicoli di un paese arroccato su un monte e nei siti archeologici che lo circondano.

Tra le innumerevoli pieghe del suo patrimonio artistico-culturale, la Sicilia custodisce numerosi siti di aggrottati.

Non ci riferiamo a luoghi frequentati da persone con particolari caratteristiche somatiche (se cercate nei vocabolari il termine è sempre accostato a “corrugare le ciglia” o a sinonimi come “accigliati”, “cupi” e “pensierosi”) ma a insediamenti rupestri databili alla preistoria, che nel tempo sono stati modificati e utilizzati come tombe, luoghi di culto, ricoveri per animali, luoghi di produzione, in molti casi inglobati da abitazioni, o divenuti l’abitazione stessa.

Localizzati in diverse zone dell’isola testimoniano la diffusione del trogloditismo (cioè l’uso di abitare caverne) in Sicilia. Sono luoghi storicamente interessanti e curiosamente affascinanti, anche se non rientrano quasi mai nelle proposte degli itinerari turistici classici.

Testimonianze di grotte abitate

Numerose sono le testimonianze di grotte un tempo abitate nella regione iblea (nella parte sud orientale dell’isola), e in particolar modo nel versante ragusano.

Notevole è il sito archeologico di Cava d’Ispica, una valle stretta tra due pareti di roccia, solcata da un ruscello (chiamato Pernamazzone nel corso superiore e Busaitone nell’inferiore), che si snoda per circa 13 km lungo i territori comunali di Modica, di Ispica e di Rosolini, tra scenari naturali e di inequivocabili segni di presenza umana dall’Età del Bronzo fino all’Alto Medioevo e ai nostri giorni.

S’incontrano ovunque villaggi trogloditici o dimore rupestri isolate.

È un catalogo di grotte artificiali davvero vasto e si passa dalle tombe a grotticella, alle costruzioni del periodo classico, alle catacombe cristiane, agli oratori rupestri bizantini, alle dimore medioevali e moderne.

A Modica si possono ammirare grotte ancora ben visibili in uno dei versanti che scende a strapiombo sulla valle e immaginare come quasi tutte le costruzioni sul versante opposto fossero in origine grotte, solo successivamente ampliate e ristrutturate.

A Scicli (il paese dove sono state ambientate molte scene della serie sul commissario Montalbano), sui versanti del colle San Matteo che precipitano a valle, ritroviamo le grotte abitate disposte su più piani, che hanno dato luogo al quartiere più antico del paese, il Chiafura.

C’è poi la necropoli di Pantalica, sui monti Iblei, a strapiombo sulla valle dell’Anapo. Si trova vicino a Siracusa ed è una meta consigliabile per difendersi dalla calura estiva: dopo la visita alla necropoli si può scendere fino al fiume a rinfrescarsi.

Una comoda pista ciclabile costeggia il letto del fiume e aree attrezzate consentono di fare comodamente uno spuntino.

In provincia di Agrigento c’è addirittura un paese di nome Grotte, a significare l’origine abitativa di quelle popolazioni.

Particolarmente interessanti sono inoltre i siti archeologici al centro dell’isola e per questo l’itinerario che vi proponiamo tocca la provincia di Enna. Di Sperlinga abbiamo già raccontato in un altro articolo, oggi ci soffermiamo sul territorio di Calascibetta.

Calascibetta, la roccaforte sullo Xibet

Arroccata a 891 metri sulla sommità di un monte, proprio di fronte a quello ricoperto dalla città di Enna, Calascibetta è un grazioso paesino di circa 4.500 abitanti. Le sue case ocra si spalmano come una glassa sul rilievo calcareo una volta sovrastato da una roccaforte islamica (e in seguito anche da una normanna) come trincea per l’assedio di Enna.

Agli arabi si deve l’origine del suo nome, Qal’at Scibet (castello eretto sul monte Scibet), e la denominazione dei suoi abitanti come xibetani, da Xibet, adattamento di periodo spagnolo.

Il territorio di Calascibetta è ricco di testimonianze che vanno dalla preistoria (si contano più di dieci siti archeologici, ma non tutti sono ancora accessibili) all’età greca, dall’epoca romana, bizantina e araba, a quella medievale, dal periodo normanno a quello catalano-aragonese.

Cosa vedere a Calascibetta

Iniziamo il nostro tour da Piazza Umberto I, dove, sorge la chiesa dedicata a Maria Santissima del Carmelo, annessa un tempo al convento dei Carmelitani, i cui locali costituiscono oggi gli uffici del municipio, e la villa comunale, che in passato fu l’orto dei frati.

A Calascibetta, oltre ai carmelitani, erano presenti anche altri due ordini monastici, quello dei domenicani e quello dei francescani, la cui Chiesa di San Francesco annessa al convento, poco fuori città, merita una visita. La incontreremo lungo il nostro percorso, così come la magnifica Regia Cappella Palatina, altro gioiello xibetano.

Salendo verso la rocca, in Via Carcere, si può ammirare il primo sito di grotte, l’introduzione ideale al nostro itinerario archeologico.

Realizzate molto probabilmente in era preistorica, e adibite a lungo ad usi funerari, nel tempo, hanno subito rimaneggiamenti e trasformazioni divenendo abitazioni, luoghi di culto, ricoveri per animali, e in un non meglio precisato periodo, utilizzate come carceri (da cui deriva il nome dato alla strada).

Osservate bene la struttura e cercate di tenerla a mente, perché più tardi la ritroveremo nel Villaggio bizantino.

Lasciata Via Carcere, costeggiamo muri di roccia viva che mostrano il sovrapporsi di varie ere geologiche, testimoniate dalla presenza di interi strati sedimentati di rocce e fossili, e giungiamo in Piazza Soccorso, dove sorge Palazzo Corvaja, residenza nobiliare del Barone Filippo Corvaja, illustre economista xibetano, e dove la vista spazia dalla dirimpettaia Enna al Monte Capodarso, dalla Rocca di Sutera a Rocca Busambra, da Monte Cammarata a Monte San Calogero, fino ad intravedere le imponenti Madonie.

Superata la Chiesa di Maria Santissima dell’Itria, una delle più antiche delle città, raggiungiamo Piazza Giuseppe D’Angelo, intitolata all’ex presidente della regione, nativo di Calascibetta.

Il panorama che ci offre questa piccola piazza è davvero mozzafiato: da qui si guarda al versante opposto rispetto a Piazza Soccorso, e l’occhio si perde verso sterminati paesaggi, da nord-ovest a sud-est, dalle Madonie ai Nebrodi, dai tanti paesini arroccati al Lago Nicoletti, fino a sua maestà l’Etna.

Ciò che a primo impatto colpisce, è tuttavia la sagoma del Monte Altesina, la cima più alta degli Erei, il Mons Aereus scelto dagli arabi, e poi dai successivi conquistatori normanni, quale centro geografico dell’isola e punto trigonometrico per la suddivisione geografica della Sicilia in tre valli (Val di Mazara, Val Demone e Val di Noto), per un più efficace controllo dei propri domini e delle principali strade d’accesso alla zona centrale dell’isola.

Poco più in là, la Regia Cappella Palatina, Chiesa Madre della città, che gli aragonesi dedicarono a San Pietro e Santa Maria Maggiore.

La Regia Cappella Palatina

La maestosa chiesa fu ultimata nel 1340 e sorse, in una posizione dominante, sui ruderi di precedenti strutture: una chiesa paleocristiana, un fortilizio arabo e il Castello Marco.

La chiesa rappresenta una delle maggiori espressioni dell’arte catalana nella provincia di Enna, e la massima testimonianza dell’operato in città del Re Pietro II d’Aragona, che la elevò a Regia Cappella Palatina, la seconda del Regno di Sicilia, unitamente a quella di Palermo, titolo che detenne fino al 1929.

La pianta è basilicale, a tre navate in stile catalano-aragonese, in cui la manifattura locale si è espressa soprattutto nelle splendide e misteriose basi delle colonne in pietra di cutu (dal francese couteau, coltello, una roccia arenaria compatta, utilizzata anche per affilare, appunto, i coltelli), decorate a bassorilievo con motivi allegorici e fantastici, e terminanti in archi a sesto acuto dai richiami gotici.

La navata sinistra ospita la cappella del fonte battesimale, di particolare pregio per il pavimento in maiolica di Caltagirone del XVII secolo e un fonte marmoreo, riccamente istoriato, di scuola gaginiana (i Gagini erano una famiglia di scultori di origini svizzere che tra il 1400 e il 1500 eseguirono capolavori di arte rinascimentale in alcune chiese siciliane).

La stessa navata ospita un’altra importante opera, una tela di Ludovico Svirech (un pittore settecentesco, di origini sconosciute, forse anche lui svizzero), che raffigura una toccante Deposizione. Una seconda opera di scuola gaginiana si trova nella navata destra: si tratta di un imponente ciborio in marmo, realizzato nel 1556.

Nella stessa navata, nella cappella dedicata a San Pietro Apostolo, è possibile ammirare la statua del santo patrono della città che regge una croce tripla e la lapide in alabastro gessoso del Barone Corvaja, illustre economista xibetano.

Alle pareti delle navate sono otto tele risalenti al ‘600 e al ‘700. Tre sono opere di Svirech, le restanti cinque furono dipinte dal pittore palermitano Francesco Sozzi, autore di altre tre tele che si trovano all’interno della sagrestia, la più importante delle quali è un olio su tela raffigurante Il Gran Conte Ruggero e la città di Calascibetta; della tela manca la parte sottostante, dove vi era la scritta Rogerius comes et templi fundator et urbis, cioè “Conte Ruggero fondatore del tempio e della città”, a testimonianza dello sviluppo urbanistico attuato dai Normanni sul precedente presidio arabo.

Lo sfondo absidale della navata centrale è occupato interamente da un dipinto del 1617 di Gianforti Lamanna raffigurante L’Assunzione di Maria. La cupola della navata è impreziosita da un’aquila a due teste in stucco che regge uno scudo crociato, simbolo del re di Gerusalemme, che ricorda la presa della stessa città durante le crociate. Putti e motivi floreali e allegorici, anch’essi in stucco, ornano il resto della cupola centrale e quelle delle due navate laterali.

Il castello e la torre normanna

Siamo nella parte più alta della città, qui sorgeva il Castello Marco e un’imponente cittadella militare, voluta dal Gran Conte Ruggero come base per conquistare l’araba Qasr Jani (Enna), espugnata dopo un assedio durato quasi trent’anni.

La cittadella si estendeva dall’odierna torre della Chiesa di San Paolo, trasformata in seguito in torre campanaria, fino a quella che era una delle porte di accesso alla città, la Porta dei Longobardi, che si trovava poco sotto la Chiesa-fortezza di San Pietro e la sua Torre Normanna. Precedentemente, tutta l’area era occupata da un fortilizio arabo, costruito per l’assedio alla Enna bizantina.

Il rimando al periodo arabo è ancora evidente negli stretti vicoli che caratterizzano questa zona, così come nel pozzo di accesso al qanat di Via Soprana.

Proseguendo verso la imponente Torre Normanna e la adiacente Chiesa di San Pietro, si godono ancora splendidi panorami, in particolare dal cortile Santa Lucia e dalla adiacente piazzetta dedicata alla stessa martire, la cui chiesa si trova poco più avanti.

La particolarità di questi due luoghi, è legata alla presenza di altissimi bastioni di roccia, che dalle pendici salgono fino a cingere la parte alta e più antica della città e che rappresentano il motivo per cui la zona più elevata di Calascibetta non ebbe bisogno della costruzione di mura che la difendessero dalle incursioni, essendo già fortificata dalla natura stessa.

Il Convento dei Cappuccini

Scendendo per l’altro versante, verso la piazza da cui siamo partiti, incontriamo lungo i vicoli altre chiese e residenze nobiliari costruite con la caratteristica pietra di cutu, che mostrano ancora il blasone della famiglia che le abitava, scolpito sulle pareti esterne.

Un antico orologio solare e la Chiesa di San Domenico, oggi adibita al culto ortodosso e intitolata a San Giovanni Battista, ci introducono nuovamente alla piazza principale, che dal 1492 rappresentò il limite tra il borgo cristiano e il quartiere in cui vennero confinati gli ebrei di Calascibetta, una delle tante comunità presenti in Sicilia.

Percorrendo la strada principale che attraversa quest’area (e che non a caso mantiene ancora oggi il nome di Via Giudea) si arriva al Convento dei Frati Minori Francescani, che sorge su quello che veniva chiamato Colle dei Greci, e che rappresentava il confine tra il quartiere giudaico e l’aperta campagna. Un’interessante testimonianza di quell’epoca è la presenza di un mikveh, la vasca utilizzata nel rituale religioso ebraico per il bagno purificatore.

La costruzione del convento risale al periodo successivo alla cacciata degli ebrei dalla Sicilia, esattamente al 1589, come testimonia una data incisa in uno dei gradini del portone d’ingresso.

La chiesa adiacente, dedicata a San Francesco, è a un’unica navata, impreziosita da una Via Crucis lignea realizzata dalla Scuola d’Arte di Ortisei (Bergamo) e da un pulpito in legno di pregevole fattura che presenta inciso il simbolo dell’Ordine Francescano. A sinistra ci sono tre piccole cappelle.

La prima è dedicata a San Pio da Pietrelcina, con una statua che lo raffigura con le braccia tese verso il fedele. La cappella centrale ospita una reliquia (una scapola) del Beato Fra’ Simone Napoli da Calascibetta, mentre la terza presenta due vetrate raffiguranti Santa Chiara d’Assisi e Santa Elisabetta d’Ungheria.

L’altare della chiesa è impreziosito dall’imponente tela seicentesca del pittore fiorentino Filippo Paladini, L’Adorazione dei Magi. Nonostante la presenza della sua firma, sembra che il pittore volle rimarcare la paternità dell’opera dipingendosi di spalle, nell’angolo a sinistra del quadro.

Di grande interesse la pinacoteca del convento, ricavata in un antico e suggestivo corridoio dalle volte a crociera con archi a tutto sesto in pietra. Qui si incontrano notevoli opere, come un quadro del 1698 raffigurante l’Incoronazione della Vergine, l’unico firmato (Pietro Bellomo), una tela raffigurante l’Indulgenza plenaria ricevuta da San Francesco, quindi due versioni dello stesso soggetto, il Cristo alla colonna, attribuibili allo Zoppo di Gangi. Meritano una visita anche il chiostro del convento e la biblioteca, che contiene uno straordinario numero di volumi, tra i quali una pregevole Bibbia in ebraico stampata nel 1716 a Francoforte sul Meno.

L’archeologia nei dintorni

A tre chilometri dal centro abitato si sviluppa il sito archeologico di Realmese, La necropoli, che risale all’Età del Ferro, è stata realizzata sulle pareti scoscese di Cozzo San Giuseppe ed è stata utilizzata per un periodo storico piuttosto esteso, dal IX al VI secolo a.C., anche se il ritrovamento di materiale litico e frammenti ceramici databili a un periodo più antico, portano ad ipotizzare una frequentazione dell’area già nel neolitico.

Le sue quasi 290 tombe a grotticella, tutte a inumazione, sono nella gran parte dei casi a deposizionedoppia o multipla, generalmente di piccole dimensioni e a pianta circolare, spesso del tipo cosiddetto a forno, a ricordare la forma di un forno per la panificazione, anche se non mancano esempi di forma più squadrata.

I corredi funerari, ritrovati durante gli scavi condotti a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 dall’archeologo ligure Luigi Bernabò Brea, si trovano oggi presso il Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi di Siracusa, e il Museo Interdisciplinare di Palazzo Varisano, nella vicina Enna.

Singolare è la denominazione data a questo luogo dagli xibetani, proprio a causa delle dimensioni ridotte di queste tombe: ruttï de’ saracìni, ovvero, grotte dei saraceni. Interpretazione errata, questa, dettata dalla particolare forma di queste piccole celle funerarie, che si credeva essere perfettamente funzionale alla deposizione di defunti dalla corporatura esile, quale si credeva fosse quella dei saraceni.

In realtà, nel periodo preistorico e protostorico, in molti casi venivano costruite delle tombe che potessero ricordare quanto più possibile il grembo materno, al cui interno, il defunto veniva posto in posizione fetale, con l’idea di rappresentare il ritorno alla madre terra, e un successivo, ciclico rinascere.

Il luogo affascina e induce a meditare, forse per il silenzio che lo avvolge, per il profumo del timo che riempie l’aria e per i bianchi fiori di asfodelo che nelle giornate di primavera ondeggiano al vento.

Se avete voglia di camminare, percorrendo un tratto della Regia Trazzera Calascibetta-Gangi, che attraversa la necropoli, dopo circa un’oretta, raggiungerete il Villaggio bizantino, nel Vallone Canalotto. L’alternativa è arrivarci in macchina.

Il sito è un esempio di unione armoniosa tra storia e natura, un posto in cui le rocce ci parlano, e narrano di uomini, mestieri, culti. L’area archeologica, infatti, è immersa in un bosco di eucalipti e pini, che scendendo verso la parte più bassa del vallone, lascia il posto alla flora tipica della zona, caratterizzata da querce, pioppi neri e bianchi, olivastri, pistacchi selvatici e piante aromatiche come timo e nepitella.

La zona è ricca di sorgenti d’acqua, terreni fertili e roccia, che hanno sempre costituito elementi fondamentali per le popolazioni che vi abitavano.

L’insediamento, si affaccia sulla splendida Valle del Morello, dal nome del fiume omonimo e del lago artificiale creato dallo sbarramento dello stesso. Tutta l’area attorno alla valle fu densamente abitata in passato, e rappresenta un’interessante bacino archeologico, per la presenza di insediamenti databili dal neolitico al periodo alto-medievale.

La prima frequentazione umana del sito risale al periodo preistorico, e la realizzazione delle grotte, anche in epoche remote, è stata possibile per le particolari caratteristiche della roccia. L’altopiano sul quale insiste il villaggio è costituito, infatti, da arenaria calcarenite, materiale resistente ma friabile e, quindi, facilmente scavabile.

L’insediamento, copre un periodo molto lungo, di quasi cinquemila anni. Nelle epoche più remote, a partire dalla Tarda Età del Rame, gli aggrottati sono stati utilizzati dalle comunità locali, principalmente per scopi funerari.

Durante il periodo alto-medievale, le strutture rupestri sembrano cambiare destinazione d’uso e passare a una funzione abitativa. Sono presenti tombe a grotticella, a grappolo e a forno, di un periodo compreso tra la Tarda Età del Rame e l’Età del Ferro, a camera di epoca Greco-Arcaica, e tombe ad arcosolio, a forma e columbaria, del periodo Romano e Tardo-antico, che furono poi rielaborate e trasformate in ambienti a carattere civile e religioso.

Indubbia è l’impronta cristiana che permea tutto l’insediamento, testimoniata da vari simboli incisi nella roccia, con la compresenza di croci trilobate e latine, che potrebbero attestare un utilizzo a fini religiosi di questo luogo per un periodo abbastanza lungo, che sembra protrarsi anche dopo la fine dell’epoca bizantina.

In seguito, infatti, il villaggio sembra aver vissuto una fase araba, testimoniata dalla presenza del qanat, sistema di gallerie sotterranee scavate nella roccia, per la regimazione e la raccolta dell’acqua, necessaria sia per gli usi umani che per scopi irrigui.

L‘insediamento rupestre, conta in totale una trentina di ambienti. L’agglomerato centrale è sulla cresta rocciosa del versante occidentale della Valle del Morello ed è costituito da un numero considerevole di ambienti utilizzati per scopi abitativi, religiosi e funerari; altri se ne trovano staccati dal nucleo principale, come il palmento per la produzione del vino, e l’oratorio rupestre.

Molto interessanti sono i cosiddetti columbaria, cripte con nicchie per la deposizione di urne cinerarie, un tipo di sepoltura di epoca romana, diffuso soprattutto nelle zone ad alto sfruttamento agricolo.

I loculi, generalmente a forma quadrata, semicircolare o rettangolare, sono disposti in file sovrapposte fino a sette livelli. Accanto agli ambienti rupestri di tipo religioso si trovano strutture legate alle attività produttive: sono i cosiddetti palmenti, recipienti per la produzione del vino.

Si hanno poche notizie del periodo di storia successivo, ma sembra che, almeno fino ai primi decenni del ‘900, il nucleo rupestre principale fosse chiuso da un muro, ancora visibile in parte, per delimitare una grande masseria, con ambienti adibiti a stalle e ricoveri.

Associazione HISN AL-GIRAN

L’area è aperta al pubblico (l’ingresso è gratuito e sono gradite le donazioni) ed è gestita dall’Associazione Culturale no profit Hisn al-Giran (www.villaggiobizantino.com – tel. 328 3748553 – Facebook Hisn Al Giran/Villaggio Bizantino Canalotto).

Hisn al-Giran, nasce a Calascibetta nel luglio 2011, dall’intento comune di giovani laureati, liberi professionisti e studenti universitari, di promuovere e valorizzare il territorio xibetano, attraverso eventi culturali ed escursioni nei vari siti di interesse archeologico e naturalistico dell’area di Calascibetta.

Dal giugno 2012, l’associazione gestisce l’area del Villaggio bizantino di proprietà del Dipartimento Regionale dello Sviluppo Rurale e Territoriale, in regime di convenzione con lo stesso dipartimento, prendendosi cura, in forma volontaria, della manutenzione e pulizia di sentieri, viali tagliafuoco, aree sosta, punti di interesse, area parcheggio e servizi igienici.

Hisn al-Giran si occupa, inoltre, dell’accoglienza ai visitatori e dell’organizzazione di escursioni archeo-naturalistiche giornaliere, grazie alle guide dell’Aigae (Associazione Italiana Guide Ambientali Escursionistiche) presenti in associazione, e che possono essere effettuate in lingua italiana, inglese e francese (su prenotazione anche in lingua tedesca, russa e in Lis).

L’artista disturbatore

Camminando per i vicoli e le strade di Calascibetta, potreste imbattervi in cartelli stradali decisamente originali. Sono realizzati da un street artist locale, Massimiliano Germano. È un creativo che usa spesso i segnali stradali come telai per le sue opere e come veicolo per i suoi messaggi, spesso ironici e sferzanti (Facebook GER-MANO).

Gli Sgrinfiati e il Piacentinu

Sono le specialità gastronomiche del territorio. I primi sono i dolci tipici di Calascibetta, dalla caratteristica forma romboidale, preparati tradizionalmente nel periodo natalizio.

Definiti in pasticceria come semitorronati, sono fatti con mandorla tostata e tritata, farina 00, zucchero (o miele) e cannella, e sembra derivino il proprio nome dall’antica usanza, oggi meno frequente, di inciderne la superficie ancora morbida con una forchetta, prima di andare in forno.

Il Piacentino è un formaggio dal colore giallo-arancione, prodotto con latte di pecora intero, caratterizzato dall’aggiunta di zafferano e di grani di pepe nero. Non deve il suo nome alla città emiliana ma al suo sapore spiccato e leggermente piccante, un gusto che, non solo etimologicamente, “piace”.

Testo di Patrizia Cicini e Gianluca Rosso