In Islanda per un bagno caldo

Escursione all’Hot Spring, una sorgente termale nei dintorni del villaggio di Hveragerði, a pochi chilometri da Reykjavík.

Islanda, sorgente termale

Un ciglio della strada, un benzinaio e due zaini appoggiati per terra. Sono le undici del mattino e, quasi un miracolo, oggi non ha ancora piovuto.

La strada è la Ring road, la strada principale islandese: ha due corsie, una per senso di marcia e compie il giro completo dell’isola. Su questa strada passano tutti i principali spostamenti di ogni abitante, perché le strade che si avventurano nell’entroterra durante l’inverno sono spesso impraticabili.

La stazione di servizio lungo la Ring road è ai sobborghi della capitale Reykjavík ed è un punto strategico, a quanto ci hanno detto alcuni locali, il migliore per fare auto-stop.

I due zaini sono i nostri: Agostino ed io ci siamo conosciuti in aereo sul volo da Milano a Dusseldorf, il primo dei due che ci avrebbero portato sull’isola. L’aereo era in ritardo e Agostino era preoccupato perché temeva di perdere una coincidenza.

– Per dove?

– Reykjavík.

– Anch’io. Viaggi da solo?

– Sì, ho tre settimane di tempo e non ho un programma, non so nemmeno dove dormirò stanotte. Probabilmente in aeroporto e poi domattina deciderò dove andare.

Non avevo programmi nemmeno io, ma la sua mi era sembrata sin da subito un’ottima idea.

Autostop in Islanda

Sono le undici del mattino, dunque, siamo scesi da poco dall’autobus e, seduti al bordo della strada, cominciamo ad aspettare. Dicono che gli islandesi sono abituati a questo tipo di spostamento e molti di loro sono disposti a fermarsi e dare un passaggio a chi ha scelto questo modo di viaggiare che ha il sapore delle generazioni passate ma che lì, in quell’isola nell’angolo in alto a sinistra dell’Europa, ha ancora un’abbondante diffusione.

Siamo in Islanda da tre giorni e questo sarà il primo auto-stop; il cielo è clemente nei nostri confronti e, da questa mattina, non ha ancora mostrato una nuvola.

Ringrazio, anche se non so bene chi, perché una delle prime cose che ho capito è che il cielo d’Islanda, al pari, se non peggio, del cielo d’Irlanda, “a volte fa il mondo in bianco e nero, ma dopo un momento i colori li fa brillare più del vero”.

Una freccia a destra, poi un’auto che rallenta fino a fermarsi, infine una donna che si piega verso il sedile di fianco a quello del guidatore e mi guarda, abbassando il finestrino.

– Dove andate?

È giovane, dimostra meno di quarant’anni. Bionda e piuttosto attraente, dietro al paio di Ray-Ban scuri che indossa. Sul sedile posteriore una bimba di otto, forse nove anni; bionda anche lei, più della madre, porta in testa un cappellino verde e si mordicchia il dito della mano destra.

– Hveragerði.

Non lo so pronunciare, ma lei capisce lo stesso e ci fa segno di salire.

– Anche noi andiamo lì. All’Hot spring, vero?

È curioso che la donna ci parli di “Hot spring” – sorgente di acqua calda geotermale – in maniera così generica: in Islanda basta iniziare a camminare, non importa in quale direzione, per poter dire di essere diretti verso un Hot spring.

– Sì, anche noi.

Non so dire se la bimba conosca l’inglese e ci stia ascoltando; ci guarda con un’espressione a metà strada tra il curioso e l’annoiato, farfugliando ogni tanto qualche frase spezzata alla mamma, in quella lingua a me incomprensibile ma che è ricca di suoni gutturali e nasali allo stesso tempo così insoliti e affascinanti. Prima con la mente, poi con la voce provo a riprodurli.

– Hveragerði è difficilissimo da pronunciare!

– Non è vero, l’hai detto piuttosto bene, ho sentito molti stranieri che proprio non riuscivano a dirlo.

La “h” è aspirata ma non troppo, e si aggancia in continuità con la “v” successiva, che però si legge come una “f”; in mezzo la pronuncia prosegue tranquilla seguendo suoni a me noti, poi verso la fine arriva una lettera nuova: è una d morbida, che ricorda il suono inglese “th” e che va a chiudersi nella “i” finale, da pronunciare quasi come una “e”. Hveragerði.

– È una bella città?

Nonostante i Ray-Ban si intuisce un sorriso amaro, che tradisce una leggera offesa.

– Non è una città. L’unica città in Islanda è Reykjavik, Hveragerði ha più o meno due mila abitanti.

Il termine italiano “città” è abusato, sembra valere per ogni agglomerato urbano, dal piccolo comune alla metropoli. Ma noi, distratti e incuranti, avevamo tradotto “città” con l’inglese “city” che invece ha un significato più limitato. Provo a usare “Town” e rifaccio la domanda.

– Nemmeno, è un paesino.

It’s a village, ha detto, girandosi verso la figlia per aiutarla a togliersi il giubbotto. It’s a village.

La valle del fumo

Davanti a noi un piccolo cancelletto lasciato aperto e un cartello: Reykjadalur. È il nome della località e significa Valle del fumo ma questo l’avremmo scoperto soltanto dopo. In quel momento possiamo soltanto notare la somiglianza con il nome Reykjavik e domandarci il perché, varcando il cancello sempre aperto.

La strada è in leggera salita, larga qualche metro e sterrata; tutt’intorno prato. Prato e colline. Prato, colline, fumo. A volte il fumo sale direttamente da sotto la terra, altre invece da qualche piccolo ruscello di acqua bollente che scorre appena in superficie.

È fondamentale perché non solo la zona, ma tutta l’isola, è costellata di rigagnoli di acqua talvolta calda e talvolta fredda ed esso è l’unico elemento in grado dirci quando l’acqua è fresca e si possono immergere le mani e quando, invece, è meglio stare alla larga da temperature che si aggirano attorno ai cento gradi.

L’odore di zolfo è ingannevole perché c’è sempre e in alcune zone è costante e persistente; quello che sentiamo, quindi, potrebbe provenire da una sorgente poco lontana e quella che abbiamo vicino ai piedi potrebbe tranquillamente essere acqua gelida.

Il sole, nel frattempo e come era prevedibile, se n’è andato, lasciando il posto a nuvole pesanti e cariche di pioggia; è con questo paesaggio tetro, accompagnati da un gorgoglio continuo delle piccole, infinite sorgenti termali e da un silenzioso disegno di fumi intorno che ci incamminiamo, che saliamo di quota, che incontriamo altri viaggiatori sulla via di ritorno, che arriviamo a destinazione.

La passeggiata, lunga poco più di un’ora, termina al centro di una valle, tra un versante ricoperto per intero di verde prato rigoglioso e un versante, ben più scosceso, arido e formato da roccia lavica, nera.

Al centro c’è il ruscello, il motivo per cui siamo saliti. Appena più a monte si divide nei suoi due immissari: uno, quello termale, porta acqua sulla soglia dell’ebollizione, l’altro aggiunge acqua freddissima. All’incrocio il contrasto svanisce, inizia a confondersi in un unico piccolo fiume, più grande degli altri, che viaggia verso valle con acqua alla temperatura di circa 40° C e che rappresenta il motivo per cui questo posto, a un’ora di cammino da un piccolo “village” quasi sconosciuto, è tanto famoso.

È una sorgente termale a cielo aperto dove fare il bagno senza dover acquistare il biglietto d’ingresso, senza dover oltrepassare il tornello, indossare un braccialetto di riconoscimento, transitare prima dalle porte degli spogliatoi e poi dalle docce.

Basta un costume, ma, a dirla tutta, non c’è un cartello che lo impone. Basta, in definitiva, la sola voglia di entrare in acqua, di sedersi, di sdraiarsi e di lasciarsi convincere che si può stare per lungo tempo immersi: immersi nell’acqua calda, nel magma di un’isola intera, nel calore primordiale che sale, indomato oggi come un tempo, dal centro della terra.

Fuori piove. Piove per un po’, poi smette e dal cielo sembra fare capolino una punta di sole effimero e illusorio. Illudersi, perché? Forse, oggi e qui, il sole non serve. Questo pensiamo, ma senza dirlo, perché nella valle del fumo sono poche le parole; da parte nostra, come da parte di tutti i presenti.

Qualche giorno dopo, durante un altro passaggio rimediato in auto-stop, l’uomo alla guida ci avrebbe detto che vicino a Reykjadalur c’è un’altra sorgente termale altrettanto affascinante ma di cui quasi nessuno conosce l’esistenza.

– C’è ancora più silenzio ed è sempre vuota, vi consiglio di andare a vederla.

Ci avrebbe detto anche il nome, ma né Agostino né io l’avremmo capito, dimenticandocelo ben presto. Chissà se un giorno, fosse anche per caso, qualcun altro lo troverà.