La Milano di Enzo Jannacci

Viaggio nelle canzoni e in quel che resta della città degli anni sessanta raccontata con sensibilità e ironia dal cantautore.

“Tu non lo sai, perché non vai mai in giro… perché per arrivare in piazza Duomo ci vuole mezzora e devi prendere due tram. Ma io, quando alle otto torno a casa dal lavoro… cammino per Milano e mi sembra di essere un signore. Tu non lo sai ci sono tante automobili, di tutti i colori e di tutte le grandezze. È pieno di luci che sembra di essere a Natale e sopra il cielo è pieno di biglietti da Mille”.

Così cantava nel 1964 Enzo Jannacci (Milano, 3 giugno 1935 – 29 marzo 2013) in Ti te se no, tutta in dialetto milanese, lingua difficile da pronunciare ma piena di vocali   (a volte raddoppiate più che le consonanti) che la rendono dolce e musicale come quella francese. Era una Milano che forse non esiste più.

Le luci ci sono ancora e le macchine sono aumentate, i soldi che piovono dal cielo non c’erano allora e non ci sono nemmeno oggi, ma è cambiata l’atmosfera e si fa fatica a vedere le sfumature e la bellezza che Jannacci sapeva cogliere: quella dei luoghi semplici e comuni frequentati ogni giorno, e di un’umanità tenera e surreale, che si racconta e nessuno ascolta, che muore e nessuno vede.

Tutto ci scorre davanti velocemente e non distinguiamo più il reale dal virtuale. Ci sembra di possedere il mondo ma conosciamo poco le piccole cose di cui è fatto.

Tornando alla canzone e al sentirsi un signore (passeggiando per Milano), Jannacci ci racconta come è il mondo dei ricchi immaginato dai poveri: il signore è quello che ha la radio, “nuova nell’armadio”, che porta a casa una torta per i bambini, perché quando vengono a casa da scuola bisogna viziarli “a ti un’altra vestina, a ti te cumpri i scarp”. Ti te se no, ripete alla moglie, ma la stessa felicità da signore la ritrovo quando accarezzo la “tua bela faceta”, per me così pulita. Come se tutta la ricchezza del mondo poteva essere compensata da un semplice gesto di affetto.

I posti citati nelle canzoni

I luoghi, più o meno riammodernati, esistono ancora. “Puoi buttare giù un muro- ha detto Jannacci in un’intervista – ma l’essenza del luogo, l’odore della memoria rimane sempre”.

E forse è ancora possibile incontrare personaggi simili a quelli descritti nelle sue canzoni, quasi sempre dignitosamente poveri, dolenti e stralunati, con storie disperate venate di ironia e comicità. Storie minime di gente minima: come quella di Gigi Lamera, innamorato di una che pensava non fosse fine arrivare alla fabbrica in bici, così “prendeva il treno per non essere da meno” e “ostentava un cravatta dell’Upìm, ma non era un tipo snob”; di Giovanni “telegrafista e nulla più” che cerca la sua Alba “Alba, poco alba, nemmeno mattiniera” e scopre da un dispaccio che è scappata con un altro.

Oppure di uno che aveva un taxi nero (“che andava col metano”) e un fratello “biondo degenere”, che rubava gomme di scorta “per fare la vita del signor”. La storia più nota è diventata un inno dell’emarginazione, “Vengo anch’io, no tu no”, ma l’elenco è lunghissimo se comprendiamo anche la lista di Quelli che… (scritta da Jannacci e Beppe Viola): “quelli che non si divertono mai, neanche quando ridono”, “quelli che fanno un mestiere come un altro” o “quelli che hanno cominciato a lavorare da piccoli, non hanno ancora finito adesso. E non sanno che cosa stanno facendo”…

Iniziamo questo strano tour milanese dei luoghi cantati da Jannacci (un po’ storico, un po’ turistico, un po’ alla rinfusa) seguendo lo zio ottantenne, “appena uscito dal neurodeliri”, di La forza dell’amore (una via di mezzo tra Twist and Shout dei Beatles e La bamba, con un inciso che sembra la cantilena di un rosario, con una piazza al posto del nome di un santo e “ier sera pioveva” invece della corale risposta “prega per noi”).

L’itinerario parte dal tetto del Duomo, all’inseguimento (…che tampinava) prima di una bella mora, che in controluce però sembrava un uomo, poi di una filovia e infine di un ghisa (un vigile urbano). Spinto dalla “forza dell’amore” e sotto una pioggia incessante, l’arzillo vecchietto arriva a Porta Romana, a Porta Vittoria,  a Porta Vigentina, in piazza Napoli, in piazzale Susa e in piazzale Martini.

Il Duomo

Con le sue 135 guglie, 3.400 statue e 150 doccioni, il Duomo è uno dei monumenti più frequentati d’Italia (in classifica è subito dopo il Colosseo e prima di Pompei e degli Uffizi di Firenze), sul suo tetto salgono ogni anno sei milioni di visitatori.

È quindi un luogo dove è facile incontrare gente, normali turisti o personaggi straordinari come lo zio della canzone. Il Duomo di Milano è anche il titolo di una delle canzoni più struggenti di Jannacci (racconta il funerale di un ragazzo).   Nessuna concessione alla bellezza e alla maestosità dei suoi interni, “è pieno d’acqua piovana, ce l’han portata con gli ombrelli e ce l’han portata con i pianti per la redenzione delle puttane”.

Porta Romana

Delle tre porte citate nella canzone, la più antica è Porta Romana. Faceva parte delle mura medioevali ed era collocata vicino alla piazza del Duomo (all’altezza dell’attuale incrocio tra Corso di Porta Romana e via Francesco Sforza).

Fu distrutta dal Barbarossa nel 1162. Quella che vediamo oggi, in piazza Medaglie d’oro, venne costruita nel 1598 ai tempi della dominazione dei Re di Spagna (periodo in cui il Manzoni aveva ambientato i Promessi sposi) e a lato della piazza sono ancora visibili resti delle mura spagnole. Sono affiancate da uno dei primi grattacieli milanesi (una torre di 23 piani del 1962) e da una palazzina dei primi anni del ‘900 in stile liberty che dal 2007 ospita un moderno centro termale.

La storia dello spazio occupato oggi dalle terme è curiosa. La palazzina nasce come stazione di tram e veniva chiamata ironicamente la Gioconda. Era una delle quattro dell’anello tramviario che circondava il centro della città, e qui confluivano i funerali della periferia per proseguire su rotaia fino ai cimiteri Monumentale e Maggiore (il corteo era solitamente formato da carrozze agganciate, la prima per il feretro, la seconda per il clero e l’ultima per i parenti). Nella piazza c’era anche un’osteria con un nome adeguato, El Miserere, che viene citata in una poesia di Carlo Porta.

Nel 1926 cambia la viabilità nella zona (per il nuovo piano urbanistico, che porterà negli anni seguenti alla copertura dei navigli, vengono costruite nuove strade e nuovi percorsi ferroviari), l’area si trasforma in una specie di luna park, con una delle prime montagne russe in Italia (che veniva chiamata “la slitta del monte Tabor”), e diventa la sede del dopolavoro dell’Atm (l’azienda trasporti municipale).

La palazzina ospita la sala da ballo “Il ragno d’oro”, che negli anni a seguire sarà il tempio milanese del liscio, la palestra per i nuovi urlatori rock (da Toni Dallara a Celentano) e un centro di sperimentazione teatrale con dibattiti, a volte coordinati da Giangiacomo Feltrinelli e Umberto Eco.

L’antica porta e la palazzina liberty erano nel paesaggio che per molti anni Dario Fo (coautore con Jannacci della Forza dell’amore) ha visto dalle finestre della sua casa affacciata alla piazza.

Porta Vigentina

Dell’antica porta e delle mura non esiste più nulla, a ricordarla resta solo la denominazione della strada che da lì arrivava al centro (corso di Porta Vigentina). Il nome derivava da quello del primo paese che si incontrava sulla strada per Pavia e che dalla fine dell’800 fu annesso a Milano. Il borgo era detto Vigentino perché si trovava a venti chilometri da Pavia.

Porta Vittoria

L’hanno chiamata Vittoria solo dal 1861, per celebrare le Cinque Giornate di battaglie contro gli austriaci del 1848. Porta Tosa, così si chiamava dal 1600, era uno degli ingressi a Est delle mura spagnole e fu la prima ad essere espugnata dagli insorti. Dell’antica costruzione restano oggi i due caselli daziari che la affiancavano e al centro della piazza fu collocato un obelisco contornato da figure in bronzo: cinque formose ragazze (allegoria delle cinque giornate) e vari animali.

Autore dell’opera fu Giuseppe Grandi, un esponente della Scapigliatura milanese. Ci impiegò dodici anni e per la preparazione dei gessi a grandezza naturale trasformò il suo laboratorio in uno serraglio di animali vivi con oche, galli, tacchini, cani, aquile e un leone sahariano, acquistato dallo zoo di Anversa.

Le piazze: Napoli, Martini e Susa

La prima è a Sud Ovest della città, le altre a Est. Sono tre grandi piazze oggi ordinate, tranquille (se si esclude il traffico automobilistico delle circonvallazioni che le attraversano) e anonime dal punto di vista turistico, non hanno monumenti o edifici di rilievo. Hanno in comune un giardino al centro e alberi che fiancheggiano le strade trafficate che gli girano attorno. Sono però inserite o adiacenti a dei quartieri particolari, che negli anni ’60 e ’70 hanno conosciuto momenti di degrado (le malattie tipiche delle periferie cittadine: lo spaccio della droga e la prostituzione).

Da piazza Napoli parte via Giambellino che ha dato il nome a una zona di prevalente edilizia popolare, resa famosa dal Cerutti Gino, frequentatore di un bar del quartiere che viene arrestato mentre cerca di rubare una Lambretta, come ci ha raccontato Giorgio Gaber nella Ballata del Cerutti (1960). Il personaggio è inventato ma il bar esiste ancora (oggi è gestito da cinesi, non ha più il biliardo, dove giocava il Riccardo in un’altra canzone di Gaber, e ha perso l’atmosfera da vecchia osteria).

Il Giambellino in quegli anni aveva la nomea di quartiere di malaffare (qui è nata la prima banda dell’allora ragazzino Renato Vallanzasca) ma per la sua aria da paese, gli spazi di verde e il progressivo smantellamento delle fabbriche che lasciava posto a una nuova edilizia residenziale sia popolare che signorile (soprattutto nella parallela via Lorenteggio) divenne una zona di richiamo anche per personaggi famosi.

Oltre a Gaber, che qui è cresciuto, nel quartiere hanno abitato anche Lucio Battisti, Moni Ovadia, Diego Abatantuono, Enrico Mentana, Ricky Gianco, Claudio Cecchetto e persino Silvio Berlusconi. All’inizio di via Lorenteggio (a pochi passi da piazza Napoli) c’è l’Oratorio di San Protaso, che ha la caratteristica di essere la più piccola chiesa della città e l’unica collocata nello spartitraffico centrale di una strada molto trafficata.

Costruita intorno al 1100, ha avuto anche lei ospiti famosi, come il Barbarossa e Federico Confalonieri che nei primi anni dell’800 qui si riuniva con i Carbonari milanesi.

Piazzale Martini è il centro del quartiere Calvairate. Nel Medioevo era un borgo agricolo alle porte della città e qui convergevano e si accampavano i contadini delle campagne circostanti che venivano in città per la vendita dei loro prodotti. Forse per questa vocazione, nei primi anni del ‘900 qui furono collocati l’Ortomercato e il Macello comunale.

Alla fine dell’800 in piazza Martini esisteva il più grande deposito di ghiaccio della città (la giazzera), un capannone lungo 80 metri e alto 15. Ci lavoravano 150 addetti e una ventina di cavalli. Per garantirne la conservazione, il ghiaccio veniva ricoperto da alti strati di paglia.

Poco lontani da piazzale Martini, piazzale Susa e l’adiacente Città Studi. Sede di varie facoltà universitarie, il quartiere è caratterizzato dagli imponenti edifici e tra questi il più originale è quello dell’Istituto Ronzoni (Facoltà di ricerche chimiche e biomediche), costruito nel 1924 in stile decò e liberty con cupole e pinnacoli ricorda il palazzo del Cremlino.

In una traversa di piazzale Susa c’è una trattoria incredibile che vi riporterà, se li avete vissuti, agli anni sessanta. Piatti semplici, poche cerimonie e prezzi popolari (qui si contano ancora i centesimi). All’Albero Fiorito (in via Pellizzone 14) per un pranzo completo spenderete quanto un posto al cinema. Come tutti i luoghi sacri ha regole inflessibili, si mangia alle 12 e alle 19, e dopo un’ora si chiude la cucina.

Il quartiere dell’Ortica

Siamo a Est di Città studi, oltre la ferrovia che collega Lambrate a Rogoredo. Fino agli inizi del ‘900 era solo cascine e ortaglie (da qui il nome). Nel dopoguerra si aggiunsero le baracche per gli sfollati e questa fu la scenografia scelta da Vittorio De Sica per alcune riprese di Miracolo a Milano.

A renderla famosa fu una canzone di Jannacci scritta con Walter Valdi, quella del famoso palo di una squinternata banda del quartiere che a proteggere il colpo aveva scelto uno che “vederci non vedeva un’autobotte, però sentirci ghe sentiva un acident”.

Così non si accorge che gli passano davanti “un ghisa, tri cariba e un metronotte” che arrestano tutta la banda eccetto lui. Lui “era fisso che scrutava nella notte” e non ha sentito “pugni, spari, grida e botte”. A mezzogiorno è ancora lì ad aspettarli, la gente passa, lo scambia per uno che chiede elemosina, gli dà cento lire e poi se ne va. Lui circospetto guarda in giro e mette via, e incomincia a lamentarsi: “Non si fa così … il bottino me lo portano su a cento lire, un po’ per volta: a far così non finiamo più. Vengo via da questa banda di sbarbati, mi metto in proprio. Io sono un palo, non un bamba, non ci sto più”.

Rogoredo

Oggi ci sono i grattacieli, le parabole di Sky, il nuovo quartiere di Santa Giulia e la stazione anche per i treni ad alta velocità. Negli anni ’60 era un quartiere popolare costruito attorno alla Redaelli, un colosso della siderurgia, con impianti sportivi dove veniva ad allenarsi anche l’Inter.

Nella canzone di Jannacci “Andava a Rogoredo” ci veniva un disperato a cercare una donna. L’aveva portata a vedere la Fiera e poi era scappata con i suoi “des chili” (diecimila lire) che lui le aveva dato per un krapfen, perché lei non aveva moneta.

Per questo andava a Rogoredo e “cercava i so danée”, girava per il paese e gridava come uno straccivendolo “nonnonnonnò non mi lasciare, mai, mai, mai”. Scoraggiato pensa persino al suicidio e va là “dove el Navili l’è pussé negher, dove i barconi poden no arrivà”. Poi riflette: “mi credi che ‘massàmm, ghe poeuss pensar süra; adess voo a to’ i mè dés chili, poi si vedrà”.

Torna a Rogoredo e riprende a cercarla: “nonnonnonnò non mi lasciare, mai, mai, mai”.

Il Teatro Carcano e via Canonica

Vengono citati nella stessa canzone, “Veronica” del 1965, ma i due posti non sono vicini. Il teatro è in Corso di Porta Romana, vicino al Duomo, mentre la via è nella zona Ovest della città, tra il Parco Sempione e la China Town milanese.

L’accostamento forse è dovuto a problemi di rima con il nome della protagonista o più sottilmente al fatto che la via è dedicata al progettista del teatro Il Carcano è infatti un grande teatro, costruito in stile neoclassico nel 1803, sul progetto di Luigi Canonica (l’architetto dell’Arena Civica, della Villa Reale di Monza, della risistemazione di Foro Bonaparte e del Palazzo Reale di Milano, oltre che dei teatri di Brescia, Cremona, Mantova, Como e Sondrio).

Nel 1913 venne completamente ristrutturato in stile eclettico, perdendo l’impronta originale neoclassica. Ha ospitato personaggi famosi come Niccolò Paganini, Eleonora Duse, Ermete Novelli e negli anni ’50 e ’60 l’operetta e le commedie musicali con Tino Scotti, Sandra Mondaini, Walter Chiari, Domenico Modugno. Dal 1965 al 1969 si trasforma in cinema, per poi riprendere l’attività teatrale che ancora oggi prosegue con importanti compagnie.

Nella canzone di Jannacci, al cinema Carcano “lavorava” Veronica, un personaggio particolare che amava la musica sinfonica “ma la suonava solo con la fisarmonica” e diceva sempre che voleva farsi monaca “ma intanto bestemmiava contra i pré (i preti)”.

Con Veronica non c’era il rischio del platonico, è stata “il primo amore di tutta via Canonica” (dove abitava) e “dava il suo amore per una cifra modica” in quel cinema. Ma con lei, che fingeva “lacrime e rossori ma lasciava fare, senza domandare”, l’amore non era una cosa comoda ne’ il luogo era il più poetico: “al Carcano, in pè (in piedi)”.

La strada per l’idroscalo

Il lungo viale che porta all’aeroporto di Linate e all’Idroscalo fu il luogo scelto per ambientare la canzone forse più famosa di Jannacci, “El purtava i scarp de tennis” del 1965.

È la storia triste di un barbone, ma la canzone è quasi urlata e con poche concessioni al pietismo. La prima parte e quella finale sono cantate, mentre quella centrale è parlata e racconta che un giorno il barbone stava andando all’Idroscalo per farsi un bagno. Accanto a lui si ferma una macchina, gli chiedono la strada per l’aeroporto Forlanini, che lui non conosce perché non c’è mai stato.

Quando gli spiegano che è sulla strada per l’Idroscalo, si fa dare un passaggio ma una volta salito si sente impacciato (non era mai stato su una macchina) e chiede di fermarla e di lasciarlo scendere. Nella parte cantata scopriamo meglio il personaggio che portava le scarpe da tennis parlava da solo, aveva gli occhi buoni ed era il primo ad andarsene perché era un barbone. La storia finisce quando lo ritrovano sotto un mucchio di cartoni, lo guardano ma è come se non vedessero, lo toccano per vedere se dormiva e poi se ne vanno perché è meglio non interessarsene: “l’è roba da barbun”.

I luoghi citati nella canzone sono l’Idroscalo e l’aeroporto Enrico Forlanini, che oggi più nessuno chiama con il nome dell’ingegnere che costruiva i primi elicotteri e inventò l’aliscafo (il viale, quello della canzone, porta comunque ancora il suo nome), preferendogli l’antica denominazione di Linate, da un piccola località vicina.

L’aeroporto nacque nel 1937, come ampliamento di quello militare di Taliedo (del 1910), accanto a dove si stava realizzando lo stabilimento aeronautico della Caproni (in via Mecenate, oggi occupato dagli studi della Rai che qui produce vari programmi tra i quali Che tempo che fa di Fabio Fazio).

In quegli stessi anni presero il via gli scavi per lo scalo degli idrovolanti, uno dei pallini di Mussolini che vedeva nei nuovi mezzi il futuro dell’aeronautica.

Per questa funzione l’Idroscalo venne poco utilizzato e oggi ancora meno. Vi si svolgono gare di canottaggio e di motonautica ma soprattutto è considerato dai milanesi come il loro mare, spiaggia per un fine settimana casalingo e oasi di verde.

Il percorso Jannacci

Nel 2015 il Consiglio di Zona 4, col patrocinio del Comune di Milano,ha promosso e realizzato un itinerario turistico-culturale dedicato al grande musicista, autore, poeta, attore e medico, nato e cresciuto nel quartiere Argonne – Lomellina.

Il Percorso Jannacci tocca cinque luoghi legati alla sua vita e alle canzoni, che sono identificati con targhe e murales. La prima targa è in via Lomellina angolo via Sismondi, dove Jannacci è nato e ha vissuto. Seconda tappa è in viale Corsica angolo Via Ardigò, dove l’artista cubano Denis Ascanio ha realizzato un grande murales ispirato a El portava i scarp del tennis, a lato della massicciata ferroviaria dei Tre ponti.

Altre due targhe sono state poste in piazzale Susa angolo viale Campania e in piazzale Martini, con brani tratti dalla canzone La forza dell’amore.

A Rogoredo, in via Orwell, un sottopasso degradato è stato interamente illustrato da vari artisti, che si sono richiamati al testo della canzone “Andava a Rogoredo”.

Fuori percorso segnaliamo anche il murales Ma mi (dove Jannacci è rappresentato insieme ad altri interpreti della famosa canzone: Giorgio Strehler, l’autore, Ornella Vanoni, Nanni Svampa, Dario Fo, Ivan Della Mea e Giorgio Gaber), realizzato da street artist di Orticanoodles sui muri di via San Faustino, all’angolo con via Rosso di San Secondo, e quello in piazza Cardinal Ferrari lungo muro del Convento della Visitazione. Qui Jannacci è affiancato da molti milanesi illustri: artisti, cantanti, scrittori, attori, registi, poeti, architetti, stilisti, direttori d’orchestra, pedagogisti.

Infine all’elenco andrebbe aggiunta anche la Casa d’Accoglienza in Viale Ortles 69, storico rifugio dei senzatetto milanesi, che il Comune di Milano ha voluto intitolare a Enzo Jannacci nel 2014.