I genovesi sono come il pane

Cronaca interiore di ventiquattrore trascorse a Genova tra Boccadasse, il Suq e gli ascensori.

“Io non ho mai visto nulla come questa Genova! – diceva Richard Wagner – Io ho riso come un fanciullo e non potevo nascondere la mia gioia! Per offrirti nel tuo compleanno il dono secondo me più grande, ti prometto oggi di farti fare nella prossima primavera una gita a Genova”.

Oggi questo dono, sebbene non sia primavera, io ho deciso di farlo a me stessa.

Il mio treno è alle 14.00. Il biglietto tra le mie dita canticchia “Milano-Genova”, ma io leggo solo “Era ora che tornassi”. Ho sempre amato questa città, vi è nata mia madre.

Il viaggio è breve, mi perdo nei sogni, nelle aspettative, in un libro. M’immergo nei ricordi che pregustare il sapore della focaccia mi riporta alla mente, ricordi che come l’olio di cui è intrisa galleggiano sull’acqua del mio fantasticare.

Sono la Miss Murple di questo treno e indago i più piccoli indizi, un accento particolare, una valigia etichettata con la destinazione per discernere chi se ne va da chi, invece, a casa ci sta tornando.

Scendo. Fermata Principe. Uno stormo di odori mi assale. Genova è una donna che si sveglia al mattino, si siede alla sua specchiera e guarda una lunghissima fila di boccette di profumo. Una diversa per ogni occasione. Un odore differente per ogni quartiere. I passanti che camminano per strada le annusano i capelli che a volte sanno di sale, altre di pesce, qualche volta s’arricciano in un miasma umidiccio oppure profumano dell’incenso dei negozi etnici sparsi per i vicoli.

All’uscita principale della trafficata stazione incontro mia cugina.

Costeggiamo Corso Italia. Raggiungiamo il primo luogo in cui amo abbracciare questa città appena arrivo. Un piccolo borgo marinaio che Edoardo Firpo nei versi di una sua poesia paragona ad una culla e all’abbraccio di una madre: Boccadasse, un quartiere situato nel Levante della città. Scendiamo dall’auto e il vento ci spoglia, ricucendoci indosso un vestito di sale. Qualche gabbiano passa sopra le nostre teste, in un volo che pare l’apertura di un portone invisibile incardinato tra il cielo e il mare.

Un piccolo “caruggio”, questo il nome dei vicoli genovesi, si infila tra le case. Mi chiedo quale sia lo spelling corretto di questa parola e ricordo di averla letta scritta da Calvino e decido che adotterò la sua versione. Intanto la stradina ci accompagna come un torrente in mezzo ai sassi, per sfociare in una piccola insenatura tra le case colorate che abbracciano il mare. Il cielo è sereno. Sono le 17:30.  Qualche ragazzo ci sorride. Qualche bambino sorride ad un cane. Noi sorridiamo alla vita. Ci sediamo sui sassi della spiaggia, come sui nostri sogni, un po’ scomode ma felici.

Ci spostiamo a Pontetto. Un sentiero di pietra s’infratta in mezzo alle case, gettandoci in un panorama mozzafiato. La costa ligure e il mare si abbracciano. Il Sole si assopisce lentamente. Appoggiamo vestiti e zaini e c’immergiamo, galleggiamo sul filo dell’acqua e perdiamo quello dei nostri discorsi. Il mare è limpido qui, è cristallino, ci coccola, ci culla, ci suggerisce qualche cosa che senza motivo ci fa sorridere. Mia cugina mi spiega che lei viene qui tutti i giorni, verso le otto di sera. Si rigenera. Si fa una doccia fredda e poi esce a bersi una birra. È quello che faremo anche oggi.

Ecco Porto Antico, una porzione del porto della città adibita a spazio di ristorazione, turismo e iniziative culturali come concerti e fiere. In questi giorni c’è il Suq. Il sito ufficiale mi spiega che il Suq a Genova è “un teatrale e ideale bazar dei popoli” la cui parola chiave è “dialogo”, uno spazio dell’anima “dove è più facile vincere le paure e i pregiudizi per andare incontro all’Altro”. Oggi è la giornata internazionale del rifugiato, questa sera, per l’occasione si terrà un concerto gratuito a cui non mancheremo. Mentre mi perdo nei miei pensieri, l’odore di curcuma e curry mi riporta nel presente.

Un’insegna mi dice che al Suq la cultura è unmezzo per capire il mondo in cui viviamo, per migliorare la qualità della vita “rendendo accessibile a fasce di pubblico solitamente emarginate la partecipazione alla produzione artistica e creativa”. Di fatto ci troviamo in un enorme mercato pieno di colori, spezie, culture, sapori. Prendiamo un piatto tipico ad uno stand di cibo persiano. Sono le 22.

Su di un piccolo palco, circondato da una ghirlanda di persone, un gruppo musicale suona Balcan Gipsy Music. La cantante mi ricorda Esmeralda, la zingara di Notre-Dame de Paris. La sua voce invade il mercato, penetra nei miei pensieri e li annulla per il tempo di una canzone. Camminiamo tra i carruggi del centro, fino ai giardini Luzzati. Il concerto di Frankie hi-nrg mc è gratuito. Ci infiliamo sotto il palco con una birra in mano. Mia cugina mi fa notare quanta gente ci sia. Io sorrido perché per i miei standard milanesi il piccolo parco è quasi vuoto. Adoro queste differenze, scoprire quanto si possa essere simili e allo stesso tempo diversi. Anche l’artista sul palco ci ricorda che la diversità è complessa da capire, da affrontare, da valorizzare ma anche quanto essa sia preziosa.

Sono già le prime ore del giorno dopo, quando il morbido materasso ci accoglie.

Verso le undici lascio casa di mia cugina. Ora a sostenermi, con meno garbo di quanto facesse il letto fino a qualche ora fa, è il sedile di un ascensore. Questa città ha un impianto urbano di ascensori pubblici per spostarsi dall’alto verso il basso. Sono a Castelletto e scendo fino alla stazione Principe. Genova è un palazzo che cresce verso l’alto e i suoi quartieri le fanno da pianerottoli. Fa molto caldo, anche per essere metà giugno. Seduta sul sedile rosso dell’ascensore guardo distrattamente il telefono e leggo le tracce dei saggi usciti alla prima prova di Maturità. Penso al passo di Caproni: “Quando mi sarò deciso d’andarci, in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto”.

Sono in largo anticipo per il treno di ritorno.

L’odore di pesce dei ristoranti si leva nell’aria. Nell’attesa esco dalla stazione e m’infilo in Salita San Paolo. “Il Milione” dice muta l’insegna sulla vetrata di un ristorante. Penso a Marco Polo, a “Le città invisibili” di Calvino. Poi la scritta continua sulla seconda vetrina: “Cucina tipica cinese”. Costeggio la Soprelevata. Arrivo nello spiazzo dove la sera precedente il Suq era aperto. A quest’ora dorme. Spento. Nelle luci, nei colori, nelle aspettative, nelle promesse fatte ieri, ora mostra l’altro lato della medaglia. Un gruppo di venditori ambulanti suda sulle scalinate sgombre.

Un profumo alle mie spalle richiama la mia attenzione. Le porte di una libreria si aprono automaticamente, mi invitano a tuffarmi nell’effluvio della carta dei libri. Il canto di Calvino adesso è autentico. Una colonna nera recita, con la voce di un gesso bianco, alcune parole di Marco Polo da “Le città invisibili”. Mi dice che un ponte “non è sostenuto da questa o quella pietra ma dalla linea dell’arco che esse formano”. Ripenso al fatto che ieri fosse la giornata internazionale del rifugiato. La radio della libreria diffonde la musica di Città Vecchia e la voce di De André.

Ora devo tornare se non voglio perdere il treno. Ripercorro la strada al contrario. Un baracchino di giostre per bambini reca la scritta “Matilde e Penelope”. Vagheggio su Matilde e Penelope, sedute a tavola in un giorno qualunque, a fare i conti per comprare la loro prima giostra bruco-mela. Le iscrizioni rosse sui muri dei caruggi m’invitano ad “organizzare la Resistenza”. Immagino le mani che le hanno scritte, sfiorarmi la spalla ed espormi la loro causa non più abilmente di quanto abbiano fatto poco fa un paio di venditori ambulanti con i loro braccialetti.

Prendo una fetta di focaccia per pranzo. Per dessert degusto la dolcezza di un anziano signore che, dopo qualche mugugno, mi spiega la strada per il mio binario. I genovesi sono come il pane: la crosta dura ma l’interno morbido e d’oro. Oro come il sole che è alto oggi. Oro come i sogni che ho fatto questa notte, dolcemente stancata dal mare, dalle salite e dalle discese di questa città.

Sono le 14.00. Il mio treno parte. Ciao Superba. Mi mancherai. Ma stai tranquilla che, appena posso, torno.

Milano mi accoglie, come i miei cani al mio ritorno da una giornata fuori. La testa bassa, la felicità di rivedersi, il dubbio del perché me ne sia andata per andare da un’altra parte.

La malinconia mi assale. Ormai sono vicina a casa e mi guardo in faccia nella vetrina di un negozio. In quella successiva immagino il riflesso di Paolo Conte cantarmi: “Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi prima d’andare a Genova. E ogni volta ci chiediamo se quel posto dove andiamo non c’inghiotte, e non torniamo più”. Ma io sono tornata, sono arrivata davanti al portone di casa.

Ma te lo prometto, Genova, appena posso torno.