L’umano errare di Van Gogh: l’inquieta ricerca dei colori luminosi

Un viaggio concepito dall’epistolario di Vincent con il fratello Théo alla ricerca di colori immaginati.

Tarda mattinata di domenica 19 febbraio 1888. Vincent Van Gogh, prende il treno che da Parigi lo porterà ad Arles. La neve ha coperto la città di 60 centimetri di bianco, anche i primi pilastri della torre che Eiffel sta costruendo, e continua a scendere.

Una ragione in più per lasciarla.

Come ha scritto al fratello Theo vuole raggiungere il Sud della Francia per riposarsi la mente e soprattutto per cercare quei colori luminosi che nel Nord non riesce a trovare.

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A Parigi ha frequentato corsi di disegno e pittura; ha conosciuto gli impressionisti (quelli poveri come lui e quelli già affermati: Toulose Lutrec, Emile Bernard, Gauguin, Cezanne, Renoir, Monet, Pissarro, Degas) che gli hanno insegnato a cercare il colore nelle ombre e il gioco dei loro accostamenti: “I colori non vanno mescolati ma accostati, perché solo così le superfici diventano vive”, e “Il nero non è mai solo nero: è blu, è marrone, a volte insieme”.

Da loro ha imparato a schiarire i suoi dipinti che fino ad allora erano di toni cupi, e con loro ha bevuto tanto assenzio, un distillato ad alta gradazione alcolica (raggiunge i 75 gradi) così diffuso nella Francia di quegli anni da diventare moda e leggenda. Verde, amaro e dal vago sapore di anice, si pensava contenesse erbe che davano allucinazioni, che portavano all’assuefazione e alla pazzia.

In realtà, se bevuto in quantità industriale come era abitudine fare tra gli artisti bohemien, l’unico effetto era quello di una sbornia colossale, a volte permanente. Fu comunque proibito nel 1915 e sostituito nei gusti popolari dal pastis, liquore all’anice che non doveva superare i 32 gradi. Limitazione che fu abolita nel 1951 (per questo la Pernod Ricard chiamò Pastis 51 la nuova produzione, ancora oggi sul mercato), mentre l’assenzio è tornato legale nel 1988 in tutta Europa, solo gli Stati Uniti ne vietano ancora l’importazione.

A Van Gogh le notti passate tra discussioni e bevute nelle bettole di Montmartre avevano raffinato la sua tecnica pittorica ma non la capacità di socializzare. Diventava più sicuro dei suoi mezzi ma sempre più scontroso, inquieto e il gruppo degli artisti tendeva a isolarlo (solo Gauguin sembrava mostrargli una timida simpatia).

Non ha amici e i rapporti con l’altro sesso sono solo con prostitute. Parigi sta diventando insopportabile. E poi vivere a Parigi era costoso, per lui che non riusciva a vendere i suoi quadri. Il fratello Theo, che commerciava opere d’arte, era riuscito a venderne solo due, La vigna rossa in Belgio e un autoritratto a Londra (quest’ultimo senza farglielo sapere, perché Vincent non voleva commercializzare lo specchio della sua faccia, ritratta così tante volte che negli occhi si poteva leggere l’evoluzione delle sue allucinazioni e delle sue angosce).

La sua unica fonte economica erano i soldi che Theo gli inviava con le sue lettere, in media 150 franchi al mese. E al fratello si era rivolto, ancora una volta, per chiedere un aiuto a trovare nuovi ambienti e nuovi stimoli. Vuole andare al Sud, gli spiega in una lettera, “perché lì i colori sono allegri e i paesaggi sono simili a quelli rappresentati dai pittori giapponesi”.

Tutti gli impressionisti amavano Ia pittura giapponese. “I giapponesi dipingono veloci, il tratto è essenziale, conciso, il loro pennello è leggero, etereo, sembra volare, disegnando un mondo di luce”.

Van Gogh aveva visto i lavori di Hokusai, ne aveva studiato le tecniche, la meticolosa precisione. “Lui davvero conosceva i colori della realtà e li faceva rivivere nelle sue incisioni”.

Quando in Olanda aveva incominciato a dipingere, i colori che Vincent usava erano solo quelli che vedeva. “Marroni, verdi, blu, persino i rossi e i gialli, erano tutti impregnati di grigio. Non erano trasparenti, come quelli di Hokusai, erano opprimenti”, come la vita dei soggetti rappresentati. Nel suo primo capolavoro, I mangiatori di patate, (così racconterà in un’altra lettera al fratello) “il soggetto l’ho solo raffigurato, non interpretato; è senza anima: patate e persone hanno lo stesso colore della terra, bruna e grigia”.

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Lasciata Parigi, il paesaggio visto dai finestrini è prima di pianura, campagna coperta di neve, poi intravede le cime bianche sullo sfondo di un cielo brillante “proprio come i paesaggi invernali dipinti dai giapponesi” e proprio come gli aveva anticipato Gauguin, che quel viaggio l’aveva già fatto l’anno prima e che aveva promesso di raggiungerlo.

Perché nei progetti di Van Gogh c’era anche l’idea romantica di creare nel Sud della Francia una comune di artisti, “che si autofinanziava in cooperativa, così gli artisti non avrebbero avuto preoccupazioni economiche e potevano pensare solo a dipingere”.

A ottobre Gauguin lo raggiungerà ad Arles, per l’insistenza di Vincent e di Theo, che gli paga il viaggio, ma le cose non andranno come Van Gogh aveva sperato. Dipingeranno tutto il giorno, Gauguin racconterà i suoi viaggi ai Tropici e si dedicherà alla cucina; Vincent curerà la casa. Si parlerà solo di pittura, ma presto le discussioni diventeranno litigi. Gauguin si stuferà e deciderà di andarsene.

Allora Vincent, che si sentirà abbandonato, si riempirà di assenzio e si taglierà una parte del suo orecchio destro, che poi porterà a una ragazza di un bordello da loro frequentato.

Ma questo non è il futuro immaginato da Van Gogh quando percorre l’ultimo tratto del viaggio tra Tarascon e Arles su un treno locale. “Ho visto – scriverà a Theo – magnifici scenari, enormi rocce gialle e piccole valli con filari di alberi piccoli rotondi, color verde oliva ma potrebbe benissimo essere alberi di limone. E poi magnifici appezzamenti di terra rossa, ricoperti di vigneti e sullo sfondo montagne di un lillà tra i più delicati”.

L’Arles che accoglie Van Gogh a febbraio non ha ancora i colori della primavera, “qui la terra sembra piatta, e Arles mi ricorda alcuni paesi del Brabante di cui non ho rimpianti”, ma dal balcone del suo albergo al 30 di rue Pichot intravede una casa gialla. Gli hanno detto che può prenderla in affitto e Vincent già l’immagina come sede del circolo degli artisti e poi quel colore, il giallo, era per lui un’aspirazione.

Non sapeva ancora che da lì avrebbe avuto inizio la sua follia.

Una discesa infinita

Vincent van Gogh nasce il 30 marzo del 1853 all’estremo sud olandese e si uccide nel 1890 nelle campagne di un piccolo borgo a Nord di Parigi. Muore sconosciuto e poverissimo dopo una vita dissipata e disperata. “Vivere – scriverà – è una discesa infinita”. Dei suoi 37 anni solo gli ultimi dieci saranno dedicati alla pittura. Produrrà un migliaio di opere ma non avrà estimatori tra i suoi contemporanei.

Ne venderà solo due. Dovranno passare decenni perché venga riconosciuto come genio della pittura, precursore dell’espressionismo e della pittura moderna.

Capelli rossi, occhi piccoli, infossati, a volte azzurri, a volte verdi, instabili come il suo carattere. Figura corta, tarchiata, schiena curva per l’abitudine di guardare sempre per terra, fronte rugosa e uno sguardo aggrottato per le troppe riflessioni. Nei suoi autoritratti (ne farà 44 tra disegni e dipinti, in soli quattro anni), ha quasi sempre una barba incolta e un cappello di paglia che faceva ombra sullo strano profilo del suo viso lentigginoso. Bocca sempre chiusa per nascondere i denti finti, d’acciaio, quelli che costavano meno.

Gran camminatore e fumatore di pipa (le sigarette le fumavano i ricchi), ha un carattere introverso, scorbutico, tormentato. Estremamente sensibile era sempre alla ricerca di un amore che nessuno ha mai voluto dargli.

Parlava correntemente tedesco, francese e inglese, ma aveva una voce stridula e fu un oratore disastroso. Sapeva invece scrivere molto bene, in modo semplice e incisivo, come testimoniano le 650 lettere al fratello Theo. Leggeva moltissimo, autori classici e contemporanei.

Non apprezzava Rimbaud, Verlaine, Baudelaire e spesso portava nei quadri le sue letture (disegna La notte stellata dopo aver letto una poesia di Walt Whitman che parla del cielo vorticoso e di stelle in processione). Amava ascoltare musica, soprattutto Wagner: “I suoi suoni sono scale cromatiche. Gli oboi sono verde e grigio, i tamburi sono ocra scuro, i violini sono di giallo cadmio”.

Figlio di un pastore calvinista viene da giovane avviato a studi artistici che frequenterà con scarso profitto. Dopo alcune esperienze di lavoro a L’Aia, Bruxelles e Londra si iscrive a un corso di teologia, ma non riesce a superare gli esami di ammissione. Decide comunque di provare un’esperienza di predicatore nelle regioni più povere dei Paesi Bassi.

Nella regione belga del Borinage scopre la miseria e la povertà, una vita che è solo sopravvivenza. Lui quasi prete, intellettuale borghese, si immedesima troppo nella brutalità dell’esistenza. La condivide e arriva a disprezzare quel clero indifferente, lontano dei bisogni e dalla disperazione delle realtà degli emarginati, fino ad abbandonarlo.

Apprezza invece la capacità di alcuni artisti che quel mondo riescono a rappresentarlo, come Anthon van Rappard, Jules Breton e Jean-François Millet. Così lascia la religione e si perde nella pittura. Dal 1883 al 1885 vive nel Brabante (regione settentrionale dei Paesi Bassi). Inizia a dipingere (l’opera più famosa di questo periodo è I mangiatori di patate del 1885) e vive tragiche esperienze sentimentali. Nel 1886 è ad Anversa per seguire alcuni corsi di disegno e a fine anno si sposta a Parigi, dove entra in contatto con gli impressionisti.

Due anni dopo si sposta ad Arles. Qui produce alcune delle sue opere più famose (La terrazza del Caffè, Girasoli in vaso, La stanza, Il ponte di Langlois) e per alcuni mesi l’affianca Paul Gauguin. È una convivenza difficile, le serate sono sempre più alcoliche e litigiose. Vincent sta male, ha attacchi di panico e allucinazioni, manifestazioni estreme che alterna a lunghi periodi di torpore.

Nei momenti peggiori mangia tubetti di colore, beve trementina, è irascibile e prende a botte tutti quelli che incontra. È convinto e ha paura di restare solo, di non poter dipingere, di non volere una vita ordinata. Tutto per lui diventa noia e dolore e tutto questo è troppo. È una vita struggente, contorta come gli ulivi e i cipressi che in quel periodo mette in tutti i suoi quadri, anche i girasoli sembrano muoversi, come esposti al vento dell’inquietudine (questa interpretazione emotiva della realtà sarà la caratteristica di uno stile di cui Van Gogh sarà precursore: l’espressionismo).

Nel 1889 viene ricoverato nella clinica per malattie mentali di San Remy, dove gli viene diagnosticata una forma di psicosi epilettica, che sarà curata con dei bagni settimanali. Nonostante l’inutilità della terapia Vincent sembra migliorare.

Gli consentono di lavorare e qui dipinge La notte stellata e I cipressi ma non perde la sua inquietudine: “l’ambiente comincia a pesarmi più di quanto possa esprimere – scriverà al fratello- ho pazientato più di un anno, ho bisogno d’aria, mi sento oppresso dalla noia e dal dolore”.

Dimesso dalla clinica con la certificazione di “guarito”, il 16 maggio 1890 Vincent lasciò definitivamente Saint-Rémy per raggiungere il fratello a Parigi. Passò tre giorni nella sua casa e trovò il modo di visitare una mostra d’arte giapponese, una delle sue passioni.

Poi partì per stabilirsi a Auvers sur Oise, un villaggio a trenta chilometri da Parigi dove risiedeva un medico amico di Théo, il dottor Paul Gachet, che si sarebbe preso cura di lui. Van Gogh è di umore alterno: “Mi sono rimesso al lavoro – scriverà a Theo – anche se il pennello mi casca quasi di mano e, sapendo perfettamente ciò che volevo, ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, ed esprimono la mia tristezza, l’estrema solitudine”.

Giudica con diffidenza l’operato del dottore: “Mi sembra che sia più malato di me, o almeno quanto me” ma vorrebbe comunque in qualche modo ringraziarlo dipingendolo in un quadro: “Lavoro al suo ritratto; la testa, con un berretto bianco, molto bionda, molto chiara; anche la carnagione delle mani molto bianca, un frac blu e uno sfondo blu cobalto; appoggiato a una tavola rossa, sopra la quale c’è un libro giallo e una pianta di digitale dai fiori purpurei”.

Una domenica di luglio esce di casa e va verso la campagna, senza cavalletto, pennelli e colori, ha con se’ solo una pistola. Si butta in una buca di letame e si spara.

Le frasi virgolettate sono una libera traduzione delle lettere di Van Gogh, riprese dal sito http://vangoghletters.org